venerdì 30 gennaio 2009

Riflessione sulla solitudine

Sto riflettendo, questa sera, purtroppo da solo come al mio solito. Ultimamente provo molta solitudine, veramente, vorrei avere almeno qualcuno accanto che mi comprende. So benissimo che ciò è impossibile, conosco benissimo me stesso, e mi dispiace. Però fino ad ora non mi ero mai sentito così solo, mi dicevo sempre "almeno da solo fai quello che ti pare quando ti pare". Vero, però ogni tanto mi piacerebbe uscire, approfittare del mondo fantastico che c'è la fuori, in compagnia di persone con cui possa parlare liberamente, persone comprensive e pazienti, che assecondino il mio carattere troppo introverso. Oramai sento che mi manca qualcosa, e questo mi genera depressione. Mi chiedo perché debba stare da solo per forza, perché sono destinato all'eterno struggimento, alla ricerca di un altra entità che non esiste. Perché? Perché esiste tutto ciò? Che senso ha? Non ho risposte. So solo che il cosmo stesso sembra isolarmi, sembra che non ne voglia sapere di me. Che cosa ho fatto mai di male? Non ne ho alcuna idea. A volte mi sembra che ci sia un ente superiore cinico e spietato che si diverte con me, sono il suo pupazzetto preferito. Che cosa stupida! Eppure, alla fine non mi sembra un assurdità.

Spero mi perdonerete se vi ha ammorbato questo sfogo, del resto è tardi.

mercoledì 28 gennaio 2009

Il popolo del lago (seconda parte)


Giada seguì il suo nuovo amico per quelli che le sembravano chilometri. Questi riusciva a nuotare molto velocemente muovendo le sue pinne come ali, e l’effetto era come vedere una grande pennuto volare nelle acque blu. La ragazza comunque riusciva a stargli dietro, senza neanche sforzarsi di nuotare: era come se riuscisse a spostarsi con la sola forza del pensiero. Ad un tratto dallo sfondo uniforme emerse una vaga macchia bianca, e man mano che avanzavano diventava sempre più nitida e delineata. Guardando verso il basso, la giovane vide che sul fondale vi era un villaggio fatto di case squadrare di fango e sabbia, e nei passaggi tra di esse sciamavano tanti tesserini simili a Xikton, apparentemente affaccendati nelle stesse attività delle persone, nelle città sulla terraferma. Davanti a loro, ora, vi era un magnifico palazzo, gigantesco e dall’architettura balzana ma straordinaria, con torri coniche altissime che spuntavano verso l’alto un po’ da ogni parte, e piccole colonne orizzontali che uscivano dalla facciata del corpo principale. Nuotarono fino all’entrata, una sontuosa e gigantesca porta squadrata senza battenti. Da lì venne condotta al cospetto del re, nella sala del trono, un salone quadrato e dalla volta altissima. Sul trono, in fondo alla sala, il re era seduto con una grossa conchiglia a mo di corona in testa,e quando vide Giada si alzò e andò a baciarle la mano. Le disse che sarebbe potuta rimanere con loro quanto desiderava, anche tutta la vita se avesse voluto, che lei era la prima umana che avessero mai avuto nella terra di Marfant, e che per questo doveva essere trattata con tutti gli onori, anche più dello stesso re. Dopo aver ringraziato il re e la corte presente nella sala del trono, venne condotta nelle sue stanze del palazzo.

Rimase con loro ventisette giorni. Ogni giorno organizzavano banchetti a base dell’unico cibo che mangiava il popolo del lago, le alghe verdi sminuzzate, e che Giada trovava veramente gustose. Le feste in suo onore poi erano davvero sfarzose, l’enorme sala da ballo era sempre piena di nobili Marfantiani che danzavano per ore, al ritmo della soave musica prodotta dalla grande orchestra. La ragazza amava quel clima, lo amava veramente, e amava anche danzare con il suo amico Xikton, che in quei giorni l’aveva sempre accompagnata. Quasi non ricordava più la sua vita sulla terraferma, i ricordi del mondo fuori dall’acqua svanivano giorno dopo giorno, ma non le importava nulla, lei ormai voleva solo rimanere in quel posto per sempre. Lassù la aspettava un mondo apatico e marcio, pieno di gente malvagia in ogni dove, là sotto invece non era così, non c’era nessuno che le volesse far del male, nessuno era apatico. Purtroppo in questo si sbagliava, se ne sarebbe accorta solo dopo; però passò ventisette giorni piacevolissimi, forse i migliori della sua vita, e tra danze e cene il tempo volò.

Nel ventisettesimo giorno, qualcosa accadde. Dopo essersi alzata alla mattina, Giada notò una cosa strana: diversamente dalla solita calma che regnava solitamente, nel palazzo quel giorno c’era una grande agitazione, un atmosfera concitata. Un po’ allarmata, si vestì e si recò nella sala del trono. Al suo ingresso, il gran consiglio del re ammutolì, e tutti la guardarono. Il re, con una faccia sconsolata, le riferì che era scoppiata una rivolta, che la popolazione, stanca di fare la fame per nutrire i ricchi banchetti dei nobili come avveniva da quasi un mese, si stava ribellando. Per sedare la rivolta avevano solo due possibilità: o smettevano le feste o mandavano via la ragazza. Giada però aveva appreso che nel popolo del lago la tradizione non si poteva violare, era sacra, e la tradizione appunto prevedeva di organizzare cene e ricevimenti ogni volta che un ospite raggiungeva il palazzo. Quindi l’unica cosa che potevano fare era proprio cacciarla via. Ma lei non voleva, non voleva proprio, si sarebbe opposta con tutta le sue forze. Espresse questa opinione al re, in tono supplicante; ma il re, sempre più sconsolato, le comunicò che non poteva restare. Doveva andarsene, non gli importava dove, ma doveva andare via dal regno. Giada guardò allora Xikton, ma questi, infelice, scosse la testa. Giada venne accompagnata all’esterno del palazzo dalle guardie, che le intimarono di abbandonare per sempre Marfant. Lei urlò, con le lacrime agli occhi, che non avrebbe mai lasciato quel posto, se non la volevano sarebbe rimasta la fuori per sempre, ma mentre diceva questo sentì un’accelerazione. Stava venendo strattonata per un braccio,  ma non vedeva chi la stesse tirando, era come se ci fosse una strana e misteriosa forza che la attraeva verso l’alto, verso la superficie, verso quel mondo che non voleva più vedere. Tentò di opporsi con tutte le forze, ma non ci riuscì, veniva portata lentamente ma inesorabilmente in su. Infine riemerse dall’acqua. Là c’erano molte luci che si muovevano e lampeggiavano, persone che parlavano e urlavano. Non riusciva a capire nulla, era confusa e stordita, sentiva solo un freddo intensissimo, non riusciva a sopportarlo. Poi si accorse che stava venendo trasportata, quindi il freddo si fece meno intenso. Disperata poiché non riusciva a capire cosa succedeva, Giada perse i sensi.

Si risvegliò all’ospedale. Non sapeva perché era lì, però vedeva davanti a se il padre, la faccia china, evidentemente molto triste. Cerco di parlargli, ma aveva le corde vocali come impastate, tuttavia il padre la sentì e si riscosse dallo stato di tristezza. Corse ad abbracciarla, forse con un po’ troppa foga. Anche Giada era dopotutto felice di rivederlo, non capiva ancora perché avesse avuto, nei giorni passati, il desiderio di non rivedere mai più nessun essere umano e di rimanere sempre nel palazzo di Marfant, mentre ora non provava che un attaccamento al “mondo di sopra”. Chiese al padre cosa era successo. Le raccontò tutto per filo e per segno: era caduta nel lago di Lecco ed era rimasta la sotto per quaranta minuti. La temperatura era quasi a zero, e grazie a ciò anche se non aveva respirato per tanto tempo non era morta, né aveva riportato danni permanenti. Per un colpo di fortuna, il nucleo subacqueo della polizia l’aveva trovata e ripescata per tempo, qualche altro minuto in più e avrebbe sicuramente riportato lesioni gravissime; ed oramai erano passate circa due ore dal salvataggio Allora Giada gli raccontò tutto quello che aveva vissuto, il mese che le era parso passare, il popolo del lago, il regno di Marfant, il palazzo, tutto ciò che le era capitato, e il padre sembrò annuire, con un sorriso strano, che lei non capì. Dopo un altra oretta, anche la sua amica, quella che compiva 18 anni, arrivò all’ospedale seguita da tutti i suoi amici invitati alla festa. Erano venuti appena avevano saputo la notizia, e ora che sapevano che non era successo nulla erano molto sollevati. L’amica fece alcune chiamate, e in qualche minuto vennero portate alcune cibarie e uno stereo: la festa di compleanno, con il permesso dei medici, sarebbe continuata in quella stanza dell’ospedale di Lecco.

Qualche giorno dopo la ragazza dopo scoprì che anche suo padre aveva avuto delle allucinazioni, anche se in forma minore, e che i NAS avevano scoperto che il pomodoro con cui aveva preparato il sugo con cui aveva condito la pasta era scaduto, e vi avevano proliferato dei funghi tossici e vagamente allucinogeni. Il negoziante, che aveva contraffatto l’etichetta a quella e ad altre confezioni, nei mesi successi venne processato e condannato per sofisticazione di alimenti e lesioni intenzionali; ma Giada non si sentiva danneggiata, anzi, l’esperienza del lago le era piaciuta moltissimo, e nonostante questo, paradossalmente, le aveva rafforzato l’amore per la terraferma. Non parlò mai con nessuno, a parte il padre, di questa avventura, ma non ha ancora dimenticato quei magnifici ventisette giorni nella terra del popolo del lago.

Il popolo del lago (prima parte)

Dedico questo racconto a Giada, altra mia lettrice. Giada è giovane, e il suo racconto riflette questo fatto: può infatti sembrare ingenuo, di quei fantasy di bassa qualità. Alla fine però è una delle mie solite storie che coniugano il realismo alla sfera onirica. E' inoltre il racconto più lungo che abbia scritto, tanto lungo da doverlo spezzare in due parti. Spero vi piaccia.

Il popolo del lago

Era appena tornata a casa da scuola, quando il telefono cominciò a squillare. Giada corse a rispondere: era una sua cara amica, che le ricordava di venire alla sua festa di compleanno, più tardi quello stesso giorno. La ragazza non se ne era certo dimenticata, come poteva scordarlo, eppure la telefonata la rese felice. Sarebbe andata a Lecco, e sarebbe rimasta lì fino ad ora tarda, a festeggiare i 18 anni dell’amica, un traguardo molto importante nella vita di una persona, e il solo pensare quanto poteva essere speciale la festa le dava allegria. Corse in camera sua, per posare zaino e giaccone, e poi volò come avesse le ali ai piedi nella cucina, per prepararsi il pranzo da sola. Si fece una buona pasta con un sugo semplice e rapido, e in pochi minuti stava già mangiando. Il giornalista nella televisione della cucina balbettava parole incomprensibili a causa del volume troppo basso, e Giada e mangiò la metà del suo pasto in silenzio ascoltando quel soffuso mormorio, con troppi pensieri per la testa per accorgersi del fatto. Il telegiornale finì, e partirono le previsioni del tempo: la neve e il gelo di quei giorni non si sarebbero sciolti, e che anzi le temperature sarebbero state vicine allo 0 per quasi tutto il giorno. Alla giovane non piaceva l’inverno, soffriva sempre il freddo nella sua camera, ma non importava, la festa per fortuna era al chiuso. Già pregustava la sera dopo, immersa nei propri pensieri, quando il telefono squillò di nuovo. Era suo padre, le diceva che stava andando a casa, molto in anticipo rispetto al suo solito.

Dopo circa mezz’ora sentì il campanello che suonava, e corse ad aprire al padre. L’uomo entrò dalla porta dell’appartamento rivolgendo alla figlia uno smagliante sorriso. Disse che era felice, e che aveva una bella notizia da darle. Dopo essersi seduto in cucina ed aver mangiato quel poco che restava della pasta in relativo silenzio, tenendo la ragazza un po’ sulle spine, le disse che quel giorno, proprio quella sera, aveva organizzato un programma: sarebbero andati fino a Milano a fare compere, e poi sarebbero andati al cinema insieme. Sarebbe stato un modo, sosteneva, di rafforzare il rapporto padre-figlia e di divertirsi insieme. Giada rispose che non poteva andare con lui, che le dispiaceva molto ma aveva già un impegno, e quella bella iniziativa andava rinviata, ma forse mise un po’ troppa enfasi nel tono della sua voce. Il padre, solitamente permissivo, questa volta replicò che o andava con lui o sarebbe rimasta tutto il giorno chiusa nella sua camera, con tono non duro ma autoritario. La ragazza, molto stupita e anche amareggiata di quella risposta imperativa e anche un po’ tirannica, finì la mela che stava addentando con pochi e veloci bocconi, poi senza dire nulla si alzò e corse al piano di sopra a chiudersi in camera.

Giada guardava fuori della finestra la neve che ricopriva il paesaggio del piccolo paesino mentre le lacrime le rigavano il viso. Non era giusto, non era assolutamente giusto. Lei lo sapeva ormai da settimane della festa, e anche suo padre doveva per forza saperlo, del resto gliene aveva parlato spesso entusiasta. Quindi perché aveva scelto proprio quel giorno? Poteva essere così distratto? Ma soprattutto, perché quello scatto inusitato, che non era, in fin dei conti, rabbioso ma nemmeno normale per lui? Non aveva risposte, sapeva solo che doveva fare qualcosa, al più presto. A quel punto un’idea si fece largo nella sua testa, un’idea che di primo acchito le sembro addirittura “insana”, ma che, man mano che i minuti passavano, le sembrò sempre più sensata. Pensò che poteva evadere da quella stanza, uscire di soppiatto, scendere giù senza farsi scoprire, poi prendere la corriera per Lecco ed andare alla festa. Guardò l’orologio del computer con cui stava navigando: sarebbe arrivata un po’ tardi, ma non faceva nulla. Prese il lenzuolo che stava sul suo letto, lo tagliò a metà con un paio di forbici in modo da non farsi scoprire e legò le due parti con uno stretto nodo. Poi fissò uno dei due lembi al termosifone che si trovava sotto la finestra. Aveva intenzione di calarsi giù dalla finestra, come spesso si vede fare nei film americani, e dopo essersi ben vestita e preparata, aprì la finestra e stese il lenzuolo. Andò quasi tutto bene, ma alla fine il nodo legato al termosifone si sciolse, e Giada piombò nel vuoto. Per fortuna era a neanche mezzo metro da terra, perciò riuscì ad atterrare in piedi e senza un graffio.

Arrivò dopo poco alla fermata della corriera. Si sentiva strana, come qualcosa che ribolliva nello stomaco e al contempo le faceva uno strano effetto, come se la stesse intontendo. In effetti quella balzana sensazione le era arrivata subito dopo aver finito la pasta, forse poteva essere un effetto di questa. Comunque questo disturbo non le aveva dato fastidi fino a quel momento, e neanche ora le provocava un granché, si sentiva solo un po’ stordita. Non ci fece comunque caso, e prese la corriera. Nei tre quarti d’ora successivi, quelli necessari per arrivare a Lecco, però l’effetto aumentò molto, si amplificò al punto che non si accorse nemmeno, una volta lì, di essere alla fermata più vicina al luogo dove si teneva la festa di compleanno. Sentì a malapena l’autista che gridò “capolinea”, e non si accorse neanche che questi l’aveva aiutata con gentilezza a scendere, prendendo atto del suo stato confusionale. Si trovò ad un tratto sulla riva del lago di Lecco, non seppe come ci fosse arrivata, ma vedeva l’acqua dinanzi a se, la distesa bellissima e azzurra del lago che rifletteva il cielo azzurrissimo, dove non una nuvola si vedeva. Lo specchio d’acqua era stupendo, un prodigio della natura, tanto bello che a Giada sembrò quasi chiamarla, parve di sentire come un richiamo atavico, un’ancestrale attrazione data dalle sue origini marine. Si avvicinò al lago, e man mano sentiva dentro di se crescere quel fascino. Arrivata sul bordo delle acque sapeva già cosa doveva fare; e come in un sogno si gettò nell’acqua pura e limpida.

Sotto il pelo dell’acqua era freddo e umido, ma Giada si accorse con meraviglia che poteva respirare. Non solo, constatò che pur non toccando il fondo riusciva ugualmente a camminare e a restare sospesa nell’acqua. Incantata, ma anche un pochino intimorita, la giovane prese ad avanzare. I pesci che incontrava fuggivano tutti, forse terrorizzati da una cosa mai vista prima, ma non le importava, era troppo stupefacente stare lì, e mano a mano che passava il tempo l’acqua era sempre più calda ed accogliente, come se la natura la stesse accogliendo in un grande ed avvolgente abbraccio liquido. La sensazione era incredibile, quasi come uno stato di estasi totale. Ad un tratto, Giada noto una cosa: davanti a lei c’era qualcosa che si muoveva, e lentamente avanzava verso di lei. All’inizio le apparve come un piccolo pesce dalla forma strana, man mano che si avvicinava si accorse che era qualcosa di diverso, di molto diverso. Quando le fu ormai davanti, vide che era un piccolo e bizzarro esserino, altro come un dito della sua mano. Aveva una grossa testa di forma vagamente squadrata su cui spuntavano un paio di occhietti neri e una piccola boccuccia senza denti. Il corpo era piccolo e tozzo, e da questo partivano due larghe pinne al posto delle braccia; e nella parte inferiore aveva due corte gambe che terminavano con una piccola pinna laterale, e nel complesso aveva l’aspetto di un essere magico, come un folletto. L’essere cominciò a parlare, era una lingua molto strana fatta di fruscii e di schiocchi, ma la ragazza riusciva a capire che le stava dicendo di chiamarsi Xikton, e che le dava il benvenuto a Marfant, la terra del popolo del lago, di cui lui, ovviamente, era un esponente. Giada si presentò a sua volta, e con stupore constatò che non solo comprendeva la lingua del piccolo essere, ma anche che riusciva a parlarla, tanto bene che sembrava quasi la sua lingua madre. Il piccolo essere le disse allora che lei era un ospite speciale del suo popolo, che l’avrebbe condotta al palazzo del re con lui: poi, pronunciando alcune parole incomprensibili e presumibilmente magiche la rimpicciolì alla sua grandezza.


Giada seguì il suo nuovo amico per quelli che le sembravano chilometri. Questi riusciva a nuotare molto velocemente muovendo le sue pinne come ali, e l’effetto era come vedere una grande pennuto volare nelle acque blu. La ragazza comunque riusciva a stargli dietro, senza neanche sforzarsi di nuotare: era come se riuscisse a spostarsi con la sola forza del pensiero. Ad un tratto dallo sfondo uniforme emerse una vaga macchia bianca, e man mano che avanzavano diventava sempre più nitida e delineata. Guardando verso il basso, la giovane vide che sul fondale vi era un villaggio fatto di case squadrare di fango e sabbia, e nei passaggi tra di esse sciamavano tanti tesserini simili a Xikton, apparentemente affaccendati nelle stesse attività delle persone, nelle città sulla terraferma. Davanti a loro, ora, vi era un magnifico palazzo, gigantesco e dall’architettura balzana ma straordinaria, con torri coniche altissime che spuntavano verso l’alto un po’ da ogni parte, e piccole colonne orizzontali che uscivano dalla facciata del corpo principale. Nuotarono fino all’entrata, una sontuosa e gigantesca porta squadrata senza battenti. Da lì venne condotta al cospetto del re, nella sala del trono, un salone quadrato e dalla volta altissima. Sul trono, in fondo alla sala, il re era seduto con una grossa conchiglia a mo di corona in testa,e quando vide Giada si alzò e andò a baciarle la mano. Le disse che sarebbe potuta rimanere con loro quanto desiderava, anche tutta la vita se avesse voluto, che lei era la prima umana che avessero mai avuto nella terra di Marfant, e che per questo doveva essere trattata con tutti gli onori, anche più dello stesso re. Dopo aver ringraziato il re e la corte presente nella sala del trono, venne condotta nelle sue stanze del palazzo.

Rimase con loro ventisette giorni. Ogni giorno organizzavano banchetti a base dell’unico cibo che mangiava il popolo del lago, le alghe verdi sminuzzate, e che Giada trovava veramente gustose. Le feste in suo onore poi erano davvero sfarzose, l’enorme sala da ballo era sempre piena di nobili Marfantiani che danzavano per ore, al ritmo della soave musica prodotta dalla grande orchestra. La ragazza amava quel clima, lo amava veramente, e amava anche danzare con il suo amico Xikton, che in quei giorni l’aveva sempre accompagnata. Quasi non ricordava più la sua vita sulla terraferma, i ricordi del mondo fuori dall’acqua svanivano giorno dopo giorno, ma non le importava nulla, lei ormai voleva solo rimanere in quel posto per sempre. Lassù la aspettava un mondo apatico e marcio, pieno di gente malvagia in ogni dove, là sotto invece non era così, non c’era nessuno che le volesse far del male, nessuno era apatico. Purtroppo in questo si sbagliava, se ne sarebbe accorta solo dopo; però passò ventisette giorni piacevolissimi, forse i migliori della sua vita, e tra danze e cene il tempo volò.

Nel ventisettesimo giorno, qualcosa accadde. Dopo essersi alzata alla mattina, Giada notò una cosa strana: diversamente dalla solita calma che regnava solitamente, nel palazzo quel giorno c’era una grande agitazione, un atmosfera concitata. Un po’ allarmata, si vestì e si recò nella sala del trono. Al suo ingresso, il gran consiglio del re ammutolì, e tutti la guardarono. Il re, con una faccia sconsolata, le riferì che era scoppiata una rivolta, che la popolazione, stanca di fare la fame per nutrire i ricchi banchetti dei nobili come avveniva da quasi un mese, si stava ribellando. Per sedare la rivolta avevano solo due possibilità: o smettevano le feste o mandavano via la ragazza. Giada però aveva appreso che nel popolo del lago la tradizione non si poteva violare, era sacra, e la tradizione appunto prevedeva di organizzare cene e ricevimenti ogni volta che un ospite raggiungeva il palazzo. Quindi l’unica cosa che potevano fare era proprio cacciarla via. Ma lei non voleva, non voleva proprio, si sarebbe opposta con tutta le sue forze. Espresse questa opinione al re, in tono supplicante; ma il re, sempre più sconsolato, le comunicò che non poteva restare. Doveva andarsene, non gli importava dove, ma doveva andare via dal regno. Giada guardò allora Xikton, ma questi, infelice, scosse la testa. Giada venne accompagnata all’esterno del palazzo dalle guardie, che le intimarono di abbandonare per sempre Marfant. Lei urlò, con le lacrime agli occhi, che non avrebbe mai lasciato quel posto, se non la volevano sarebbe rimasta la fuori per sempre, ma mentre diceva questo sentì un’accelerazione. Stava venendo strattonata per un braccio, ma non vedeva chi la stesse tirando, era come se ci fosse una strana e misteriosa forza che la attraeva verso l’alto, verso la superficie, verso quel mondo che non voleva più vedere. Tentò di opporsi con tutte le forze, ma non ci riuscì, veniva portata lentamente ma inesorabilmente in su. Infine riemerse dall’acqua. Là c’erano molte luci che si muovevano e lampeggiavano, persone che parlavano e urlavano. Non riusciva a capire nulla, era confusa e stordita, sentiva solo un freddo intensissimo, non riusciva a sopportarlo. Poi si accorse che stava venendo trasportata, quindi il freddo si fece meno intenso. Disperata poiché non riusciva a capire cosa succedeva, Giada perse i sensi.

Si risvegliò all’ospedale. Non sapeva perché era lì, però vedeva davanti a se il padre, la faccia china, evidentemente molto triste. Cerco di parlargli, ma aveva le corde vocali come impastate, tuttavia il padre la sentì e si riscosse dallo stato di tristezza. Corse ad abbracciarla, forse con un po’ troppa foga. Anche Giada era dopotutto felice di rivederlo, non capiva ancora perché avesse avuto, nei giorni passati, il desiderio di non rivedere mai più nessun essere umano e di rimanere sempre nel palazzo di Marfant, mentre ora non provava che un attaccamento al “mondo di sopra”. Chiese al padre cosa era successo. Le raccontò tutto per filo e per segno: era caduta nel lago di Lecco ed era rimasta la sotto per quaranta minuti. La temperatura era quasi a zero, e grazie a ciò anche se non aveva respirato per tanto tempo non era morta, né aveva riportato danni permanenti. Per un colpo di fortuna, il nucleo subacqueo della polizia l’aveva trovata e ripescata per tempo, qualche altro minuto in più e avrebbe sicuramente riportato lesioni gravissime; ed oramai erano passate circa due ore dal salvataggio Allora Giada gli raccontò tutto quello che aveva vissuto, il mese che le era parso passare, il popolo del lago, il regno di Marfant, il palazzo, tutto ciò che le era capitato, e il padre sembrò annuire, con un sorriso strano, che lei non capì. Dopo un altra oretta, anche la sua amica, quella che compiva 18 anni, arrivò all’ospedale seguita da tutti i suoi amici invitati alla festa. Erano venuti appena avevano saputo la notizia, e ora che sapevano che non era successo nulla erano molto sollevati. L’amica fece alcune chiamate, e in qualche minuto vennero portate alcune cibarie e uno stereo: la festa di compleanno, con il permesso dei medici, sarebbe continuata in quella stanza dell’ospedale di Lecco.

Qualche giorno dopo la ragazza dopo scoprì che anche suo padre aveva avuto delle allucinazioni, anche se in forma minore, e che i NAS avevano scoperto che il pomodoro con cui aveva preparato il sugo con cui aveva condito la pasta era scaduto, e vi avevano proliferato dei funghi tossici e vagamente allucinogeni. Il negoziante, che aveva contraffatto l’etichetta a quella e ad altre confezioni, nei mesi successi venne processato e condannato per sofisticazione di alimenti e lesioni intenzionali; ma Giada non si sentiva danneggiata, anzi, l’esperienza del lago le era piaciuta moltissimo, e nonostante questo, paradossalmente, le aveva rafforzato l’amore per la terraferma. Non parlò mai con nessuno, a parte il padre, di questa avventura, ma non ha ancora dimenticato quei magnifici ventisette giorni nella terra del popolo del lago.

martedì 27 gennaio 2009

27 gennaio, giornata della memoria

Oggi si celebra la giornata della memoria. Cosa me ne importa? Personalmente non conosco nessun ebreo, ne nessuno che abbia preso parte alle vicende della seconda guerra mondiale (o meglio, mio nonno è stato internato per qualche mese in un campo di concentramento, ma non me ne ha mai parlato). Perché quindi? Perché in questi giorni ho riflettuto molto sull'argomento. Ho iniziato quando su Rete 4 hanno passato il film Schindler's List, che non avevo mai avuto la fortuna di vedere. Ebbene, film capolavoro, nulla da dire, ma l'argomento e la durezza con cui è trattato mi ha abbastanza sconvolto e mi ha portata a pensare a quale tragedia possa essere stata. Poi ho giocherellato un po' con i numeri, come piace fare a me, e ho trovato che 6 milioni di ebrei in 5 anni e mezzo circa equivalgono a pressapoco un ebreo morto ogni 30 secondi. La cosa mi ha davvero agghiacciato, quindi posto questo piccolo pezzo. Non sarà chissa che, ma spero che riesca comunque a trasmettere l'orrore che ho provato e il mio rispetto per tanti innocenti uccisi dalla stupidità umana.

lunedì 19 gennaio 2009

Il giovane e l'iliaco

Dedico questo racconto a Michele, un altro dei miei lettori. La ricchezza di particolari è dovuta al fatto che mi sono ispiratato ad una storia vera, anche se la parte paranormale e onirica è ovviamente una mia completa invenzione.

Il giovane e l’iliaco

Michele aspettava il suo amico con un certo nervosismo passeggiando avanti e indietro davanti alla tomba di Antenore, il leggendario fondatore di Padova, nella piazza omonima. Fino a quel momento era andato tutto bene, quel giorno: era persino riuscito ad acquistare una buona quantità di dischi a basso costo, e la cosa lo rendeva ovviamente felice, anche se aveva speso forse troppi soldi, e sapeva che ne avrebbe spesi alti nel prosieguo del giorno. Il suo nervosismo era dovuto al fatto che colui che doveva incontrare non era propriamente un amico, ma invece una persona conosciuta attraverso Msn. E se su internet gli era sembrato simpatico e divertente, non sapeva se nella realtà sarebbe stato lo stesso. Inoltre, in un momento di scarsità monetaria, Michele gli aveva chiesto, sempre via chat, di comprargli un biglietto per il Priest Feast, il concerto a cui avrebbero suonato prima i Testament, poi i Megadeth e infine i Judas Priest, e a cui il suo “amico” aveva deciso di partecipare. Un concerto del genere non si vedeva quasi dai mitici eighties, perciò il giovane non sarebbe potuto mancare, ed era quindi contento che il suo amico avesse accettato la sua richiesta; tuttavia non sapeva se fidarsi di questa persona, magari poteva essere un biglietto contraffatto o falso, avrebbe potuto pagare 52 euro per un pezzo di carta straccia, e questo lo rendeva ancora più nervoso. Del resto, non lo conosceva affatto, ne conosceva gente del centro Italia, da dove “l’amico” proveniva. Controllò nervosamente l’orologio: le sedici e cinquantadue. L’appuntamento era alle 17, e lui era arrivato decisamente troppo presto.

Il tempo passò, e passò, e passò ancora, ma della persona che aspettava nessuna traccia. Dopo parecchi minuti, Michele cominciò a stizzirsi, e man mano che passava ancora del tempo, i suoi dubbi e le sue incertezze crescevano sempre di più, insieme alla sua rabbia. Alla fine, l’irritazione prese il sopravvento, e sciolto ogni dubbio, il giovane decise di andarsene, ma proprio in quel momento realizzò improvvisamente che qualcosa non andava. Non solo il suo “amico” non arrivava all’appuntamento, ma da qualche tempo non si vedeva anima viva, ne nella piazzetta, ne in via San Francesco davanti a lui, ne nella riviera Tito Livio, l’arteria che costeggiava la piazza, nessuna auto, nessun pedone, nulla. Adesso che se ne accorgeva, il silenzio regnava, e cominciava a diventare quasi assordante alle sue orecchie. La notte incombeva e i lampioni illuminavano il buio di una pallida luce arancione che rendeva il tutto ancora più spettrale di quanto già non fosse. Nelle finestre delle abitazioni attorno, invece, non si scorgeva la benché minima fonte luminosa, l’oscurità regnava incontrastata, e così era anche per la libreria Feltrinelli dall’altra parte della strada di fronte, per la facoltà di diritto comparato sull’altro lato dell’arteria e per il palazzo della procura dalle sue spalle.

Ormai abituato a quel silenzio, Michele sussultò violentemente quando d’un tratto sentì un suono alle sue spalle, un rumore sinistro quasi come uno strusciò di pietra su pietra, un sibilo molto strano. Istantaneamente si girò, e alle sue spalle c’era una figura umana, che sul colpo lo spaventò molto. L’uomo che aveva alle spalle era evidentemente molto anziano, alto e magro, con una testa completamente calva e una lunga barba bianca; nel suo volto Michele scorse qualcosa di familiare, di molto familiare, anche se non riuscì a capire cosa fosse. I vestiti del vecchio sembravano simili a degli stracci consunti, ma tutto sommato l’uomo non aveva l’aspetto del mendicante, al contrario sembrava come circondato da un aura di saggezza quasi mistica. Passato lo spavento, il giovane decise di rivolgersi all’uomo. Gli chiese  chi era, e se sapesse cosa stava accadendo lì. Quando il vecchio rispose, egli seppe che l’anziano non era certamente italiano, e nella lingua che parlava sentiva giusto qualche assonanza con i linguaggi che conosceva; tuttavia, non sapeva neanche lui in che modo, riusciva a comprendere ogni parola che lo straniero diceva, come se una voce gli stesse parlando direttamente nel cervello. Capì che il vecchio in realtà era Antenore, l’eroe troiano della guerra contro gli achei che nella leggenda aveva fondato la città di Padova. Mentre parlava, Michele si accorse che la tomba alle spalle del suo interlocutore era aperta, il sarcofago era scivolato da un lato, e ciò gli causò dubbi ma soprattutto sgomento. Nonostante ciò, il giovane decise di rimanere ad ascoltare il vecchio, e per quanto fosse dubbioso, la versione di questi gli sembrò l’unica che spiegava quella oltremodo bislacca situazione.

Rimasero in silenzio per quelle che a Michele sembrarono ore: Antenore continuava a fissarlo diritto senza parlare, e il giovane, anche un po’ messo in ansia da ciò, non osava chiedere nulla a quel fantasma con l’aspetto di un vivo, in un misto di timore reverenziale e inquietudine. Alla fine riuscì, con uno sforzo mentale non indifferente, a vincere l’agitazione, e impacciato domandò al troiano perché fosse apparso proprio a lui, se era stato in qualche modo scelto. Antenore rispose nella sua strana lingua che aveva bisogno di una persona di puro sangue padovano che appartenesse alla sua stirpe. Michele gli fece notare cautamente di essere si nato e abitante nella città patavina, ma che i suoi genitori erano originari di Mantova, e che per questo non poteva essere padovano doc, e men che meno un suo discendente; ma il vecchio gli rivelò che tutto ciò non aveva importanza, che il giovane era veramente della sua stirpe, e che risalendo molto indietro nel tempo la sua famiglia proveniva veramente da lui. Ancora una volta Michele  era incredulo, ma dopo averci pensato a lungo decise di costringersi ad accettare per vero tutto quello che gli era stato detto. Chiese quindi al vecchio cosa volesse. Gli occhi dello spettro si accesero di una strana e sinistra luce, che al giovane non piacque affatto, poi parò con enfasi affidando al giovane una missione: doveva ripristinare la purezza originaria del suo popolo, del popolo veneto, e cacciare, o ancora meglio uccidere, chiunque non ne facesse parte, italiano o straniero che fosse. Dopo un momento del più totale smarrimento, Michele questa volta rifiutò ciò che il suo antenato gli diceva. Non poteva agire in quel modo, lui che era da sempre contro ogni tipo di intolleranza, contro ogni forma di discriminazione. Vinse ogni inibizione e riverenza verso il vecchio, e gli disse in modo duro e forse un po’ ostile che non lo avrebbe mai fatto, che doveva trovare qualcun altro, e che non riusciva a capire come era possibile che un uomo che l’Iliade descriveva come moderato e pacifista potesse essere così atroce. Si pentì subito del tono usato e di tanta sincerità. Lo spettro sembrò diventare gigantesco e assunse un aspetto a dir poco spaventoso, piazza Antenore si illuminò di una luce rossa brillantissima e infernale. Da mansueto vecchio si era trasformato in un mostro, il volto deformato nella rabbia e bestiale, l’espressione demoniaca, il corpo come avvolto in grandi fiamme rosse. Ora il vecchio era un mostro alto come un palazzo e terribile a vedersi, che diventava sempre più grande e irraggiava sempre più luce, proferendo maledizioni e bestemmie dal suono terrificante. Michele non sapeva quanto durò quella perversa manifestazione, seppe solo che la paura si impadronì di lui e lo paralizzo dalla testa ai piedi. Quello che era stato lo spirito di Antenore continuava a crescere sempre di più, a irraggiare un aura malefica. Quindi, all’improvviso, sparì in un esplosione di luce rossa, e l’ultimo ricordo del giovane fu di volare sbalzato via, per poi battere pesantemente la testa sull’asfalto della strada.

Ora stava fissando dritto la libreria davanti a se, dall’altra parte della strada. Non ricordava come fosse arrivato lì, ma ora c’erano delle persone nella piazza, persone normali; e la tomba alle sue spalle, vide, era chiusa, come se non fosse accaduto mai niente. Guardò nuovamente l’orologio: le sedici e cinquantatre minuti. Era passato solo un minuto da quando lo aveva adocchiato l’ultima volta, e capì così che si era immaginato ogni cosa. Michele era una persona intelligente, capì subito anche cosa voleva dire quel sogno ad occhi aperti: il fatto che per la prima volta doveva incontrare un “terrone” come si diceva dalle sue parti aveva rivelato la sua parte intollerante, che nemmeno egli conosceva, e il nervosismo che aveva covato gli aveva scatenato l’allucinazione. Adesso era contento, era riuscito a sconfiggere dentro di se l’intolleranza, e il nervosismo si era perfino attenuato. Rivolse nuovamente lo sguardo verso la libreria e vide colui che aspettava che girava avanti e indietro, anch’egli in preda all’ansia, anch’egli in anticipo; e senza pensarci due volte lo raggiunse, e passò una serata in compagnia e senza pensieri.

domenica 18 gennaio 2009

Pesa Troppo

Ecco qui una nuova poesia, scritta in un momento, o meglio un periodo che dura tutt'ora, di sconforto verso la società. Spero che vi piacerà.


Pesa Troppo

 

Una sensazione molto strana

Alle volte mi coglie:

Sento come se il peso

Di libertà e democrazia

Sia tutto sulle mie spalle

 

Attorno a me, le persone

Sembrano disprezzarsi le une

Con le altre

E nessuno rispetta nessuno

 

Mi piacerebbe molto che ciò non fosse

Ma è solo una vuota speranza

E sono solo un piccolo uomo

Che più di tanto non può fare.

mercoledì 14 gennaio 2009

Il castello sulla collina

Ho deciso di dedicare un racconto ad ogni mio lettore che conosco, giusto per ringraziarlo di essersi preso la briga. E quale migliore metodo di scrivere una storia di cui lo stesso lettore è il protagonista? Dedico ovviamente questo primo racconto ad Alessandro, primo lettore e commentatore, e lo ringrazio anche di avermi sopportato per questi ultimi mesi. Ovviamente è un opera di fantasia.


Il castello sulla collina

Aveva appena gli amici con cui era uscito quella sera, e si era incamminato verso casa, desideroso di riposo. Invece che percorrere la sua strada abituale, aveva deciso di allungare il passaggio: forse aveva voglia di passeggiare. Salerno quella sera era viva come non mai, la gente sciamava felice sui marciapiedi, intenta a fare compere, a cenare, o semplicemente a ritrovare gli amici, e quell’atmosfera gioiosa e di festa lo contagiava in qualche modo. I problemi della grande città del sud sembravano dimenticati da tutti quella sera, specialmente da Alessandro, che decise così di andare in giro per negozi. Non aveva bisogno di nulla, ma quella sera aveva voglia di guardare un po’ di merce esposta, di vetrine, di girare la città, e magari fare anche qualche piacevole incontro.

Il perché e il come probabilmente non lo seppe mai neanche lui, fatto sta che i suoi passi lo condussero in un angolo della città privo di negozi, una larga via circondata solo da alti palazzoni residenziali colorati, nella parte più elevata della città, uno strano e deserto luogo. La strada in cui si trovava terminava poco più in la, e oltre si estendeva l’oscurità più totale, una salita buia, rischiarata appena da un pallido quarto di Luna. Molti metri più in alto, sul colle che la gente chiamava Bonadies, svettava il castello di Arechi, riusciva a vederlo appena, illuminato anch’esso dalla Luna. Quello splendido ammasso di vecchie pietre, quella meraviglia di un mondo antico ormai dimenticato, lo affascinava nel profondo. Tento inutilmente di scacciare quel fascino, ma non riuscì a fare nulla, e lo sguardo gli ricadde sulla fortezza, lassù in alto. Non riusciva a capire come mai la fortezza avesse quella attrazione su di lui, ne era sedotto da una forza quasi morbosa e magnetica. Vinse le ultime indecisioni, e comincio a salire sul colle.

Il bosco attraverso il quale ascendeva non era molto intricato, non era una jungla come se ne vedono nei film ambientati in Asia o in Africa, era più una tipica foresta europea, tuttavia Alessandro inciampò molte volte. Sotto le fronde degli alberi, l’oscurità era pressoché totale, ed egli avanzava piano piano, con le mani protese in avanti per evitare i possibili ostacoli. Man mano che saliva, la fatica fisica cominciava a farsi sentire, ma caparbiamente il giovane la ignorava, continuando a salire. Non gli importava di inciampare, non gli importava nemmeno di essere stanco, doveva arrivare al castello, costasse quello che costasse. Un paio di volte attraversò anche la strada asfaltata che girava intorno alla collina e arrivava alla rocca, ma non se ne accorse nemmeno, nonostante su un lato questa via fosse costeggiata da un muro: tutte le sue forze, tutte le sue attenzioni erano rivolte verso il castello. Così si arrampicò quasi senza pensare su quelle pareti e proseguì Era sicuro che lassù avrebbe trovato qualcosa, non sapeva dire cosa ma sapeva che era quello che lo stava attirando la su, quello che lo attraeva come una calamita.

Passarono quelle che a Alessandro parvero molte ore. Oramai era ricoperto di escoriazioni e lividi, aveva perso nel bosco una manica del giaccone e aveva freddo, ma ancora non si fermava. Doveva raggiungere a tutti i costi il castello. Ormai sentiva di essere quasi arrivato, ed a un tratto, dietro una macchia boscosa, apparve, appena visibile alla luce delle stelle, il muro esterno del castello di Arechi. Ce l’aveva fatta, finalmente! Ormai era a pochi passi da ciò che stava cercando, e la tensione si impadronì di lui. E se non ci fosse stato niente, e se fosse rimasto deluso da ciò che avrebbe trovato. Il dubbio lo colse. Tento di farsi forza, dopotutto aveva fatto tutta quella strada, doveva entrare ormai. Tuttavia, alla fine la paura lo prese. Rimase lì immobile, fissando il castello davanti a se, pensando a cosa avrebbe dovuto fare.

Dopo qualche minuto, sciolse ogni dubbio. Si girò indietro, ma con la coda dell’occhio vide qualcosa che lo bloccò sul colpo, anche se non c’era alcun palese motivo per bloccarsi : il cielo a est, sopra le colline, schiariva a poco a poco, si ingrigiva, poi iniziava ad  arrossarsi. Quindi, il sole cominciò a illuminare prima le cime innevate dell’Appennino e dei Monti Lattari, poi il castello sopra di lui, e poi si alzò sempre più, illuminando la città sottostante. Allora Alessandro capì: capì che a spingerlo fin lassù non era stata un qualcosa di materiale, un attrazione fisica, ne un qualcosa di paranormale, e neanche un fascino perverso. A costringerlo ad arrampicarsi era stato semplicemente lui stesso, la sua voglia di mettersi alla prova, di sfidare i suoi limiti. Non c’era nessuna attrazione mistica nel castello, nessuna forza attrattiva. Ora la natura lo ricompensava con quella visione meravigliosa, quel bagno di luce infinita. Alessandro non credeva che esistesse un dio, almeno non come il cristianesimo, e tuttora non ci crede, ma quella volta si sentì profondamente in armonia con il tutto, quasi come se un intelligenza superiore lo stesse amando in quel preciso istante. Si sedette a terra e pianse, pianse dalla gioia.

Alla fine scese dal colle, e il giorno dopo mi riferì tutto quanto vi ho appena raccontato. Ricordo ancora come il suo volto si illuminava quando me ne parlava, come era quasi estasiato. Per questo ho scritto questo racconto, per rendere pubblica la sua “avventura”, per far si che questa sua bellissima esperienza sia conosciuta. Mi spiace molto se non sono riuscito a rendere bene questo suo racconto, del resto sono abbastanza scarso come novellista, e spero di non avergli fatto un ingiustizia in questo modo, tuttavia capitemi, la storia è tanto bella che era un peccato, secondo me, non riportarla da qualche parte.

martedì 13 gennaio 2009

Insonnia II

Riporto anche la seconda poesia scritta da me sull'insonnia. Secondo me era meglio la prima, ma lascio giudicare voi.

Insonnia II

 

Coricato sul mio parco letto

Chiudo gli occhi e tento

Di volare via.

 

Ma il caldo è insopportabile

Le tenebre cuociono il mio corpo e la mia anima

Il sudore ricopre il mio corpo

Come una odiosa coperta

E il sonno non arriva

 

La noia allora mi prende

O peggio un cupo scoramento

E passo ore fissando

L’oscurità del soffitto.

domenica 11 gennaio 2009

Gli Stranieri

Ecco un altro racconto. Questo parla sopratutto di intolleranza religiosa, e di come la religione può portare a fanatismi che non hanno nulla di religioso in se, ma sono solo violenza gratuita. Ringrazio Sandro per avermi consigliato di riscrivere quasi completamente il racconto, anche se questo non è un racconto così buono, quello originale era molto peggiore, a mio avviso. Spero comunque che venga apprezzato, è stato il meglio che abbia potuto scrivere sull'argomento.

Gli stranieri

Le campane suonarono a festa nel villaggio, quel giorno, e la popolazione si riversava urlante nelle vie e nelle piazze, festosa. Festeggiavano la liberazione da Satana, dai malvagi invasori che tramavano oscure eresie. Tutto era cominciato poco meno di 2 settimane prima, quando nel villaggio, un martedì mattina presto, erano apparsi quei sei strani individui, tre uomini e tre donne, che a primo acchito sembravano persone comuni, forse dall’aspetto più curato di un normale cittadino ma comunque normali. Però appena aprivano bocca rivelavano subito la loro anormalità: parlavano in uno strano dialetto, mai sentito in quel villaggio dell’Inghilterra centrale, comprensibile ma che anche agli abitanti del villaggio appariva molto rozzo. Inoltre, il loro comportamento era davvero strano, anche per uno straniero. Nonostante ciò, il capovillaggio li accolse con tutti gli onori, poiché gli stranieri si dicevano abitanti di una terra straniera e molto lontana, e ambasciatori di un grande stato.

I guai però non tardarono ad arrivare: per gli stranieri era stato costruito un piccolo palco in legno nella piazza centrale, proprio davanti alla chiesa del Signore Iddio. Il capo dei forestieri, un uomo alto e magro, bloccò le persone che volevano entrare in chiesa appena prima della messa domenicale, dicendo che la messa era stata rinviata grazie ad un accordo con il parroco (ed ovviamente era una menzogna). Disse nel suo strano dialetto che il suo nome era Cliff, che veniva dal suo paese per dimostrare la Verità reale agli uomini e per liberare gli abitanti del villaggio. Dopodiché iniziò ad affermare che Dio non esisteva, che era tutta un invenzione volta solo a creare infelicità. La rabbia delle persone si manifestò subito, con urla e insulti verso i confronti degli stranieri, e già alcuni provavano a salire sul palco per dare ai blasfemi ciò che meritavano; del resto Dio stesso avrebbe voluto la morte di coloro che bestemmiavano il suo nome. I vendicatori tuttavia vennero fermati dalle guardie del villaggio, che seppur indignate avevano ricevuto l’ordine tassativo di proteggere gli ospiti a qualunque costo. Una volta che il trambusto si fu calmato, lo straniero Cliff parlò di nuovo e disse che poteva dimostrare quanto diceva. Una marea di risate si sollevò, e un pomodoro volò ad un pelo dalla sua testa bionda, facendogli decidere che era meglio desistere dal parlare ulteriormente al popolo.

Il giorno dopo, le guardie del villaggio, messe a disposizione degli stranieri dal capovillaggio, furono viste erigere fuori città un altissimo palo verticale usando del ferro comprato dagli evidentemente molto ricchi forestieri. Il palo non sembrava avere alcuna funzione, era solo un stretta colonnina di metallo più alta di ogni tetto delle case e di ogni albero nel circondario, e con una punta acuminata in cima. Solo in un secondo momento si capì come avevano fatto a costruirlo in così poco tempo, tuttavia nessuno pensò che ci fosse qualche trucco sotto. Il pomeriggio, sul palco, lo straniero Cliff spiego che quella balzana asta era ciò di cui avevano bisogno per dimostrare la loro tesi sull’inesistenza del Signore. Passarono cinque giorni, e all’improvviso la mattina del sesto gli stranieri invitarono i popolani ad uscire e a recarsi nei pressi del palo. Era un giorno nuvoloso e cupo, presto cominciò a diluviare, ma a una certa distanza dal palo erano state fabbricate delle tettoie, abbastanza estese da coprire dalla pioggia praticamente tutto il villaggio. Il forestiero Cliff disse che presto il palo sarebbe stato colpito da dei fulmini, come per magia. Forse per coincidenza, forse per uno strano scherzo del destino, il palo venne colpito da una folgore, poi da un altra, poi da un altro ancora, a distanza di circa un quarto d’ora l’una dall’altra, e andò avanti per ore, finché non cessò la tempesta.

L’indomani, era ancora nuvoloso, ma non vi fu pioggia. Gli stranieri bloccarono di nuovo i popolani desiderosi di ricevere la comunione. Anche stavolta fu il forestiero Cliff a parlare, e esordì domandando alla folla come mai, se era Dio a mandare i fulmini, aveva colpito solo il palo? Il palo attraeva i fulmini, evidentemente, quindi non era Dio a controllarli, ma il palo: Dio quindi non esisteva. Stavolta questa blasfemia non fu perdonata, neanche dalle guardie, che si voltarono e tentarono di aggredire gli stranieri. Si scatenò quindi la confusione più totale: due delle guardie assalitrici sparirono all’improvviso rimpiazzate da una nube di fumo, dopo essere state colpite da uno strano raggio rosso uscito da uno strano oggetto metallico tra le mani dello straniero Cliff. La folla, presa dal panico, iniziò a fuggire, spaventata dalla magia nera usata dall’ormai odiato ospite, dalle arti oscure usate da quell’adepto di satana, finche la piazza non si fu svuotata. Con un altro sacrilegio, lo stesso straniero riuscì a alzare il volume della sua voce in maniera che tutti lo sentissero, anche coloro che si erano barricati in casa sbarrando le finestre. Disse con un tono molto triste che il giorno seguente lui e gli altri del suo gruppo se ne sarebbero andati via per non tornare mai più.

Venne l’indomani, e la popolazione si raccolse nel primo pomeriggio davanti a quelli che erano stati gli alloggi degli ospiti. Gli appartamenti furono trovati vuoti: per una volta gli stranieri avevano mantenuto la parola data. All’improvviso, nel cielo si accese un secondo sole, gigantesco e splendente. Iniziò a muoversi, prima quasi in orizzontale, poi si allontanò sempre più fino a scomparire. Il sacerdote, presente anche egli agli alloggi degli stranieri, e anche egli testimone di quel prodigio, riconobbe che era un segno della benevolenza del Signore verso il popolo, che aveva così ben combattuto quei servitori del male, e dichiaro quel giorno come festa del villaggio.

Nel frattempo, il capitano Clifford Timson vedeva dall’oblò il villaggio  allontanarsi sempre di più, con grande malinconia; aveva fallito, fallito miseramente. La sua missione era quella di eliminare ogni forma di religione dalla faccia della Terra; quindi la sua disfatta era delle più totali. Se non era riuscito nel suo compito nemmeno con un piccolo villaggio, non sarebbe sicuramente riuscito a fare qualcosa di concreto per completare la sua missione. Era certo che quel metodo, sebbene molto rudimentale, sarebbe riuscito a convincere delle persone semplici come gli abitanti del villaggio; invece non solo non aveva avuto successo, ma nel panico aveva anche usato il disintegratore su due povere persone uccidendole. La tristezza lo attanagliò: egli sapeva bene che lo scontro tra cristianesimo e islam aveva causato negli anni  2036-2037 e.v. una guerra atomica da cui in pochi si erano salvati, e per la quale il pianeta Terra era stato completamente raso al suolo, la sua natura distrutta, la sua superficie resa invivibile. Il capitano rivedeva nella sua mente i primitivi video con le interviste ai sopravvissuti, rivedeva la disperazione nei loro occhi per ciò che avevano perso.

Tra le poche centinaia di persone che erano riuscite a portarsi in salvo vi erano fisici, ingegneri, astronauti, astronomi; grazie all’unione  delle loro conoscenze, essi erano riusciti a costruire strutture sul pianeta Marte sufficienti a sopravvivere. Nell’anno 2609 e.v. si era finalmente inventata una macchina in grado di viaggiare attraverso il tempo, ed era stato scelto un team qualificato di “marziani”, che era stato inviato sulla Terra a bordo di un astronave nell’anno 1609, mille anni prima, per cercare di eliminare cristianesimo e islamismo ed evitare così la guerra. Non avevano però fatto i conti con l’ignoranza e la testardaggine della gente di quel periodo, e per questo avevano fallito.  Il capitano Timson ormai aveva capito che non aveva più nulla da fare in quella zona dello spazio tempo, sapeva ormai che l’ignoranza uccideva più della spada e del disintegratore, così diede un ultimo sguardo alle isole britanniche che ormai erano completamente visibili dall'oblò, dopodichè ordinò al suo navigatore di inserire come coordinate temporali l’anno 2009 e.v., nella speranza di trovare meno ottusità nella gente di quel periodo storico; e mentre la nave viaggiava avanti di 400 anni, giù in basso gli abitanti del villaggio facevano festa, ignari di tutto, perfino del fatto che la loro ostinazione e la loro ottusità avrebbe potuto distruggere completamente i loro discendenti e quel magnifico pianeta su cui ora danzavano e festeggiavano.

sabato 10 gennaio 2009

Insonnia

Ho scritto questa poesia in un periodo della mia vita in cui non riuscivo a dormire. Anche questa poesia fa parte della mia raccolta di "poesie tristi", quindi se non vi piace il genere, ancora una volta, vi invito a desistere dal leggere. 

Insonnia


Accade spesso che la notte

Morfeo non arrivi nella mia casa

E continuo per ore ed ore

A fissare il soffitto nero.

 

Dei pensieri invadono la mia testa

Pensieri allegri, tristi, giocosi

Ma alla fine sempre cupi diventano

E la voglia di dormire mi pervade.


Il dolore alla fine mi prende

In questo letto, avvolto dall’oscurità

E vorrei morire o almeno dormire

Ma nulla accade

E rimango insonne per ore.

giovedì 8 gennaio 2009

Notte

Questo racconto l'ho scritto stasera verso le 2 di notte. Come si può ben vedere, è molto diverso dal primo, e se quello richiama alcuni scrittori di fantascienza, questo presenta influenze da Lovecraft, anche se penso sia più personale. A me ieri notte pareva bello, adesso non ne sono tanto sicuro, giudicate voi. Comunque, non c'è alcuna morale nascosta nel racconto, nessun significato occulto, è solo un racconto onirico e vagamente psichedelico, spero che vi piaccia.

Notte

 Il bolide sfrecciava giù dal cavalcavia, e poi entrava in una rotatoria a tutta velocità, sbandando leggermente verso l’esterno; poi abbandonava la rotatoria e spariva dalla vista del ragazzo che dalla finestra guardava verso l’esterno. Era veramente tardi quella notte, e il giovane, internauta provetto, aveva già salutato il suo ultimo amico della chat, ed ora era nella più completa solitudine, nel più completo silenzio. Il ragazzo era affascinato dall’oscurità, dalla notte, dalle tenebre, gli dava un certo senso di sicurezza. Sapeva però anche benissimo che non era bene uscire la notte, specie nel quartiere di Padova dove viveva: l’Arcella era un quartiere degradato, non quanto quelli più a est, ma comunque c’erano molti problemi. Eppure, era attratto da quell’impenetrabile coltre di nero, da quel manto oscuro che c’era fuori della finestra.

Sussultò quando il campanello di casa suonò. Il cuore cominciò a battere forte, erano ormai le una e mezza di notte, chi poteva mai essere a quell’ ora? Andò alla porta, guardò dallo spioncino, ma non c’era nessuno. Cautamente, aprì la porta, ma chi aveva suonato sembrava svanito nel nulla. Allora decise che era ora di andare a dormire, ma un pensiero all’improvviso si fece strada in lui: e se invece fosse sceso in quella oscurità, sotto alla sua finestra? Ormai anche i criminali nottambuli dovevano essere a dormire, non c’era alcun pericolo. Allora, senza pensarci due volte, chiuse alle sue spalle la porta e scese giù, uscendo dal portone principale. Fuori, c’erano lastre di ghiaccio e neve congelata di diversi giorni prima, eppure il ragazzo non aveva freddo, anche se non aveva preso una giacca: gli sembrava come se quelle tenebre lo riscaldassero come una soffice coperta di lana.

Decise di prendere il cavalcavia e di arrivare davanti alla stazione dei treni di Padova. Erano solo pochi passi, ed inoltre al giovane piaceva molto l’ambiente di stazione e tutto ciò che concerneva i treni. Tuttavia, appena girato l’angolo, vide attraverso la penombra qualcosa che lo lasciò perplesso, ma anche un tantino spaventato: Via Tiziano Aspetti era lunga e diritta, e attraversava una vasta pianura. Il cavalcavia era sparito, così la rotatoria che vedeva dalla sua finestra, e Padova non era più Padova. Era in aperta campagna, ora, la strada che aveva davanti era costeggiata da campi, illuminati dalla pallida luce delle stelle. Il cielo era la parte più meravigliosa e più inquietante: Orione era gigantesco, la sua spada era visibilissima e di colore rosso, la sua cintura indicava Sirio, splendente come un sole e glaciale. Le Pleiadi erano una meravigliosa chiazza luminosa, e più in la Aldebaran emanava una più che sinistra luce rossa. Il giovane rimase a contemplare lo spettacolo celeste per quelle che gli sembrarono ore. Gli faceva male la testa, ma non poteva staccare gli occhi dalla volta.

Le prime luci dell’alba arrivavano, e le stelle iniziavano a scomparire a una a una, quando il giovane si riscosse dallo stato di torpore che lo aveva preso. Guardava in alto, ma ora vedeva solo un soffitto grigio, pieno di screpolature. Tento di alzarsi dalla posizione sdraiata che non ricordava di aver assunto, ma vide che era difficile: era sdraiato in mezzo ad altre persone, sul pavimento della stazione, di quella che riconobbe essere la stazione di Padova, terzo binario. Si spaventò molto, ma senza un suono riuscì finalmente ad alzarsi, e piano piano andò via da quel posto. Passando davanti ad un distributore automatico di bibite e merendine, vide il suo volto riflesso: aveva come minimo 50 anni, era calvo, sdentato e con una lunga barba. Erano passati quindi almeno 30 anni dalla notte in cui era uscito di casa, e pur non ricordandosi nulla, il ragazzo si accorse di essere diventato un clochard, e a quanto vedeva riflesso nel vetro di quella macchina lo era da molto tempo. Le lacrime lo colsero, e piangendo si diresse verso il sottopassaggio. Uscì dalla stazione, e non sopportando il dolore che lo aveva colto si gettò sotto un’auto di passaggio, uccidendosi.

Si risvegliò sulla sua scrivania, la finestra completamente aperta, l’orologio del computer acceso davanti a lui che segnava le 11 di mattina, e il suo amico di chat che gli chiedeva se era presente in linea o meno. Si accorse che la sera precedente si era addormentato davanti al computer, e che nulla di ciò che aveva visto era reale. La testa gli fece male per giorni, era letteralmente caduto sulla scrivania dal sonno, battendo la testa, e aveva un bel bernoccolo in fronte che gli spuntava come un corno. Tuttavia non ebbe paura di sognare ancora, perché il sogno della notte precedente gli piacque, pur nella sua tragicità. Non è bene, pensò, rifiutare ciò che il cervello dice mentre sogniamo, perché ogni cosa, anche la più onirica o incomprensibile, in realtà ha un senso.

Solitudine

Uno delle mie tante attività è scrivere poesie. Queste poesie però sono molto tristi, perciò se non vi piace la malinconia non leggetele. Dato il tema del blog, la prima poesia che pubblico qui non poteva che intitolarsi Solitudine.

Solitudine

 

Il mio carattere è difficile,

E per questo non riesco mai a stringere

Amicizia.


 Tendo ad isolarmi, ma gli altri certo

Non mi aiutano per nulla,

E non so se vivere da solo sentendo

Un forte bisogno di compagnia

O stare con gli altri pur sapendo che a loro

Non importa nulla di me.

 

Certe volte penso sarebbe meglio

Vivere rinchiuso in un castello

Sperduto in mezzo a boschi e montagne

Immerso da solo nelle meraviglie naturali

Libero da ogni vincolo.

 

Questo mio sogno però lo so anche io

Che è impossibile

Perciò i miei pensieri diventano neri

E ho l’impressione che vivrò l’intera vita da solo

E morirò in solitudine.


P.S. chiedo scusa per la spaziatura tra le righe, ma sono alle prime armi con il blog.

mercoledì 7 gennaio 2009

La soluzione omicida

Quest è il primo racconto che abbia scritto. Lo so, è abbastanza infantile e ci sono varie influenze da altri autori (1984 di Orwell o Starship Troopers di Heinlein ad esempio), ma a me piace. Spero che piaccia anche a voi pochi lettori di questo blog.

La soluzione omicida

Erano passati molti anni da quando la democrazia era fallita. Si era capito che il sistema democratico non poteva funzionare, che comunque c’era sempre qualcuno che veniva scontentato. Era così stato instaurato un regime nel quale una piccola minoranza di studiosi decideva il meglio per tutti, senza che la gente potesse obiettare. In effetti, non solo il popolo non poteva ribellarsi, ma neanche voleva: la mente di ognuno di loro era condizionata a tal punto da non poter rifiutare nessuna pretesa o ordine dall’alto. Gli scienziati a capo degli stati, i pochi che non avevano ricevuto il condizionamento fin da piccoli, erano contenti di questo risultato: avendo inculcato ogni valore positivo nella gente e tolto tutto ciò che era negativo, la criminalità non esisteva più, e ognuno lavorava senza chiedersi nulla, felice di aiutare la società.

Accadde però che la popolazione saliva troppo di anno in anno, la natalità era piuttosto alta e la mortalità, con i grandi progressi della medicina, ovviamente diminuiva. Gli studiosi tentarono di trovare una soluzione. Pensarono innanzitutto a obbligare la gente all’uso di contraccettivi, ma accantonarono subito l’idea, perché si vide che i soggetti dello studio non si riproducevano per niente, e loro avevano bisogno di una popolazione da sfruttare per mantenere lo status quo. In seguito provarono a mettere dei paletti per quanto riguardava l’attività sessuale consentita, ma accantonarono subito anche questa idea: le cavie condizionate in questo modo finirono per impazzire e ribellarsi, “perché il sesso è la maggiore valvola di sfogo che hanno dallo stress del condizionamento” giustificarono gli psicologi incaricati dello studio. Ma il tempo stava ormai per scadere, il limite di popolazione che la Terra poteva sopportare stava avvicinandosi burrascosamente. Gli scienziati di tutta la Terra, ormai a corto di idee, si riunirono tutti in un convegno, per decidersi il da farsi. Da qualcuno venne l’idea che poi approvarono tutti: si sarebbe condizionata la gente in modo tale che pensasse che fosse giusto uccidere una –e una sola- persona. In questo modo la popolazione si sarebbe dimezzata.

Venne il giorno in cui gli scienziati avevano pianificato il condizionamento, e a mezzogiorno in punto dai ripetitori audio posti ormai in ogni dove sulla Terra, venne il segnale subliminale codificato che attivava le menti della gente e le condizionava. Ora gli studiosi sapevano che ognuno, chi prima chi dopo, avrebbe ucciso un suo simile, così, trionfanti,  quello stesso giorno si riunirono di nuovo in congresso, per congratularsi gli uni con gli altri e tirare tutti insieme un sospiro di sollievo. Ma mentre era in atto il convegno, l’elettricità che illuminava la sala smise di essere erogata. Gli scienziati allora pensarono ad un guasto sulla linea, che sarebbe stato riparato a breve da operai specializzati. Ma passarono tre ore, quattro ore, e alla fine i capi del mondo uscirono all’aperto, sfidando i 50 gradi dell’effetto serra, per capire cosa era successo.

Uno dopo l’altro, chi prima chi dopo, gli studiosi morirono di fame, di sete, di caldo, perché gli erogatori di cibo, di acqua e l’energia elettrica non funzionavano. L’ultimo di loro rimasto in vita, ironia della sorte proprio colui che aveva proposto per primo “la soluzione omicida”, in punto di morte capì cos’era successo: il condizionamento mentale aveva funzionato troppo bene, e ogni uomo ne aveva ucciso un altro. Anche il condizionamento precedente operava, però, e vincolava ognuno al dogma che uccidere un altro era sbagliato. Così, avevano fatto l’unica cosa che rispettava entrambi i condizionamenti, cioè ognuno aveva ammazzato se stesso, e la Terra era ormai disabitata. Lo scienziato, che prima era uno dei più potenti per giunta, morì da solo, tra atroci sofferenze, con l’orribile consapevolezza di essere stato il mandante del più grande genocidio mai messo in atto, e una lacrima gli scese sul viso, mentre il sole del mezzogiorno lo stava ormai disseccando del tutto.

Presentazione blog

Salve. Innanzitutto mi presento: mi chiamo Mattia, ho 20 anni, e sono delle marche. A questo punto dovrei dire perché ho aperto un blog. Dovete sapere che io sono una persona molto solitaria, come si intuisce anche il titolo del blog. Una conseguenza di cioò è che, nella mia solitudine, ho tanto tempo per pensare, per creare, per scrivere, ecc, ma dalla mia solitudine deriva anche che tutto quello che penso e creo rimane dentro di me. Quindi, questo blog è un modo per esternare i miei pensieri e le mie riflessioni, ed inoltre per consentire ad altri di giudicare le mie creazioni