lunedì 6 aprile 2009

Terremoto

Ho scritto questa poesia dopo aver appreso dei fatti del L'Aquila. Mi ha colpito molto questa tragedia, forse perché anche io ho provato sulla mia pelle, seppure senza riportare danni, cosa vuol dire un terremoto vicino (parlo di quello Umbro-Marchigiano del 1997), forse perché l'entita dei morti, seppure decisamente inferiore ad altri eventi simili che avvengono nei paesi del terzo mondo, è comunque notevole; quello che so è che mi dispiace immensamente per tutte le vittime di questo disastro, e sono molto vicino ai sopravvisuti. Per questo, come già avve nel caso di Eluana, ho deciso di scrivere una poesia, che dedico a tutti i morti di questa orribile tragedia come un elegia commemorativa. Spero che non la troviate troppo macabra o irrispettosa e comunque che vi piaccia.


Terremoto

 

Sembrava una notte come tante

Quella di ieri

La gente dormiva placida e ingenua

E le stelle splendevano tranquille.

 

Ma la Terra, la madre che ci creò

Può non essere sempre benevola 

E in modo imprevedibile

Senza alcun motivo

Si scagliò con violenza sull’Abruzzo centrale

 

Le porte dell’inferno allora si aprirono

Scuotendo la terra.

E, come animate da terribili demoni

Molte abitazioni, che fino ad allora

Erano luoghi protettivi,

Si rivoltarono contro i loro abitanti

Seppellendoli.

 

Solo alla mattina

La tragedia venne rivelata:

Cumuli di macerie ovunque

E altre strutture talmente lese

Che lo sarebbero diventate a breve

E i superstiti, ormai senza casa

Vagava per le strade

Senza meta, con solo negli occhi

L’orrore

 

Ai miei occhi

E non solo ai miei

Una tragedia terribile.

 

Per questo sarebbe meglio

Ricordare le vittime

Che siano morti,

O sepolti vivi

O abbiano perso la casa

Bisogna aiutarli

Per quanto possibile

 

Perché tutto ciò poteva capitare

A ciascuno di noi…

domenica 5 aprile 2009

Invasione

Ho iniziato a scrivere questo racconto nel periodo precedente gli esami, la prima parte infatti è ispirata dall'esame di fotometria (che poi è pure saltato - lunga storia). Comunque, non sapevo se pubblicarlo o meno, ero più orientato a tenerlo per me, in verità. Negli ultimi 2 giorni però ho riflettuto molto, e scrivendo il finale ho deciso di pubblicare questo racconto di fantascienza ambientato in un futuro che spero non sia mai in essere, non dedicato a nessuno in particolare (come i miei usuali racconti), che nasconde una mia amara riflessione sull'uomo. Spero comunque che sia di vostro gradimento, anche se sono convinto che non si riuscitissimo come racconto.


Invasione

L’astronomo stava guardando il cielo, quella notte. Stava compiendo rilevazioni di tipo fotometrico su alcune delle galassie più vicine, con il telescopio che inviava sul suo monitor la precisa rilevazione del sensore di fotoni. Mentre osservava, quasi annoiato, il grafico della intensità di radiazione in tempo reale, all’improvviso questo mutò forma. Ora la luce visibile che la galassia inviava era più intensa, come se fosse apparso un qualche corpo celeste dal nulla. No, non poteva essere un pianeta sconosciuto o una supernova, lo spettro rilevato dalla strumentazione aveva righe di emissione inusuali, corrispondenti forse a qualche metallo raro, ma sicuramente non alle componenti solite dei corpi celesti noti. Lavorò tutta la notte, poi all’alba capì finalmente cosa aveva visto.

Due giorni dopo, anche la gente comune (che ovviamente non sapeva nulla di fotometria) era a conoscenza della scoperta dell’astronomo; e non perché era stata pubblicata chissà quale ricerca, o ne era stato dato annuncio tramite i media (anche, ma non solo). Lo sapevano perché l’oggetto misterioso si era avvicinato al pianeta fino a diventare visibile a occhio nudo, e non era solo: molti altri oggetti simili erano apparsi in tutte le direzioni del cielo, tutti attorno al pianeta. Esperti da tutto il mondo avevano parlato chiaro: quelle erano senza ombra di dubbio fenomeni artificiali, generati da un’altra civiltà, una civiltà aliena. Invitarono tutti a non farsi prendere dal panico, certamente sarebbe stato un contatto pacifico. Ma non ce n’era bisogno: in quell’epoca dominavano razionalità e scienza, oramai quasi nessuno pensava che una cultura tanto più evoluta della loro da poter viaggiare nello spazio a velocità superiori della luce attraversando spazi interstellari potesse essere bellicosa. Del resto, loro erano ben lontani da quel risultato, ma la loro ultima guerra era finita 200 anni prima. Quindi, non ci furono quasi scene di panico da parte della popolazione, se non da parte di pochi ignoranti. Stupì invece la quantità di persone che, affascinata dall’ipotesi di non essere soli nell’universo, si liberò dagli impegni, prese dei periodi di ferie, solo per dare il benvenuto agli ospiti alieni. Era esplosa come una mania, a livello planetario:  per le città si organizzavano lunghe sfilate di persone che danzavano accompagnate da musica festosa, e la sera si organizzavano sfarzose feste a cui tutti potevano partecipare.

L’euforia duro pochissimo. Nonostante nessuno lo avesse previsto, nonostante non ci si ponesse nemmeno il problema che i visitatori potessero essere bellicosi, alla fine dalle sfere di luce, che evidentemente erano astronavi da guerra, uscirono sciami di piccole navette, che entrarono nell’atmosfera e atterrarono decelerando. Ognuna di esse ospitava un piccolo gruppo di visitatori, con i corpi dalla forma strana rivestiti completamente di una tuta protettiva impenetrabile che ne mascherava il reale aspetto. Essi cominciarono, senza alcun motivo palese, a distruggere villaggi e città, con una facilità inusitata e una violenza sconcertante. I soldati erano pesantemente armati, avevano fucili che funzionavano con una tecnologia sconosciuta, contro cui i giubbotti antiproiettile erano totalmente inutili, e possedevano inoltre quelle che sembravano bombe all’idrogeno miniaturizzate ma potentissime, che potevano sparare a grande distanza con un piccolo cannone che ognuno di loro aveva nella sua dotazione. In pochissimi giorni, il pianeta si trasformò dal paradiso che era in un inferno: le città vennero bruciate nei casi migliori o peggio rase al suolo, le campagne vennero rastrellate da cima a fondo in cerca di cittadini fuggiaschi o di semplici contadini. Ovunque c’erano scene atroci, cadaveri di persone ammassate le une sulle altre e poi date alle fiamme, bambini uccisi sbattendone la testa contro i muri, ammassi di macerie fumanti da cui uscivano odori nauseabondi.  La sorte che capitava alle persone era orribile: anche chi si arrendeva uscendo allo scoperto veniva ucciso senza alcuna pietà; e nascondersi era vano, poiché gli invasori, non si seppe mai come, erano abilissimi e riuscivano a trovare chiunque, qualunque fosse il nascondiglio. Solo pochi scelti casualmente venivano storditi e portati via, ma non si sapeva cose ne facessero ne perché li portassero via. Era un immane carneficina, estesa all’intera superficie del pianeta.

Agli alieni bastarono una decina di giorni per ripulire il pianeta dagli abitanti autoctoni. L’ultimo sopravvissuto in assoluto, un giovane appena ventenne, venne catturato mentre tentava di nascondersi in un garage sotterraneo nei pressi di una piccola cittadina già distrutta all’inizio del conflitto: venne preso e portato a bordo di una delle navi madri. Lì, venne rinchiuso in una gabbia metallica  in un grosso salone dalle pareti bianche, dove gente con una strana tuta dello stesso colore sembrava intenta a esaminare delle carte e utilizzare dei computer. Dovevano essere sicuramente scienziati, e lo stavano esaminando. Il giovane si sentiva male: non solo aveva paura, un terrore gigantesco nel sapersi in balia di quelli che avevano sterminato una parte (non sapeva di essere l’ultimo) della sua razza; in quel luogo l’aria era irrespirabile, tanto che doveva lottare per non svenire. Nonostante ciò, però dopo pochi minuti era allo stremo delle forze, e dalla posizione eretta cadde seduto, quasi senza forze. Con un ultimo sforzo disperato, alzò di nuovo lo sguardo e vide uno degli alieni che si toglieva la parte superiore della tuta, quella che copriva la faccia, e poi si girava verso di lui. Era veramente uno spettacolo terribile, con quella strana peluria intorno all’apertura della bocca e su fino alla cima della testa, quella grossa e bizzarra protuberanza al centro del viso… e poi quegli occhi! Ne aveva solamente due, ed erano giganteschi e terrificanti a vedersi. Colmo di orrore a quella visione, il giovane si accasciò a terra, e in pochi secondi spirò.

Il collega che aveva accanto, il dottor Morgan, lo apostrofò in modo deciso. Il dottor Joe Pogson sapeva benissimo che non doveva togliersi il casco: non si sapeva se gli autoctoni erano portatori di microbi capaci di attaccare il corpo umano. Certo però che in quell’astronave era caldo, e la tuta era molto isolante. Comunque, era stato solo un attimo, se lo sarebbe rimesso subito. Si girò per sgranchirsi un poco, e vide l’extraterrestre, seduto sul pavimento, che lo guardava con quei suoi 4 fastidiosi e piccoli occhietti e un espressione indecifrabile sul volto, per poi cadere riverso a terra. Era morto, probabilmente, come tutti gli altri portati in laboratorio. Del resto la composizione dell’atmosfera del pianeta appena conquistato dall’esercito in nome del pianeta Terra non era esattamente come quella corrispondente al loro pianeta natale, identica a quella che si trovava nella nave, ma aveva una concentrazione tripla di anidride carbonica: e la teoria più accreditata su quegli esseri era che fossero organismi fotosintetici, ecco perché avevano quella pelle scura tendente al nero per catturare maggior radiazione solare. La relativa assenza di luce, unita alla scarsità di CO2 ne avevano causato irrimediabilmente la morte. Poco male, pensò lo scienziato, non era importante conservare le specie autoctone del posto, anche perché in pochi anni sarebbero morta da sole, uccisa dalla terraformazione del pianeta che era già in atto, attraverso le piante che i soldati avevano iniziato a piantare e ai più pratici convertitori di molecole, che producevano metano e ossigeno consumando anidride carbonica e acqua. Inoltre, alla popolazione dei pianeti già conquistati non sarebbe importato nulla di quelle forme di vita, anche perché all’opinione pubblica si era fatto credere che ogni pianeta conquistato era privo di forme di vita o abitato da pochi batteri; certo essa sarebbe insorta se si fosse saputo che c’erano esseri civili su quasi la metà dei pianeti fino ad allora occupati. Ma non si poteva fare altrimenti: terraformare un pianeta disabitato era complicato e costosissimo, meglio impossessarsi di pianeti dove la vita si era già sviluppata da se, anche se in molti casi significava distruggere una qualche civiltà. Senza alcun rimorso, lo scienziato si rimise il casco e ricominciò a lavorare: anche se il mostro era morto non significava nulla, dovevano comunque analizzarlo.

La nave ripartì dopo pochi mesi per tornare alla Terra, per rendere pubblico il successo della missione di terraformazione di quel pianeta. Ma il corpo del ragazzo venne gettato nello spazio prima che la nave compiesse il balzo, e così centinaia di cadaveri di suoi simili. E sono ancora lì, alla periferia del sistema che ospita quello che una volta era il loro pianeta, ad eterna memoria della malvagità e dell’avidità dell’uomo, la razza intelligente in assoluto peggiore di tutta la Via Lattea.