giovedì 15 dicembre 2011

Come cavie in un laboratorio

Come promesso, ecco il mio nuovo racconto, scritto in tempi record, almeno per adesso, visto che non riesco a scrivere tanto e con la stessa spontaneità di prima. Tornando al racconto, è uno dei miei classici racconti di fantascienza, anche se rispetto ai miei soliti racconti ha forse una trama più lineare e meno "a sorpresa" (che questo sia un male o il racconto sia comunque riuscito sta a voi dirlo). Secondo me, pur non essendo il meglio della mia produzione, si legge comunque con piacere, e spero perciò che piaccia anche a tutti i miei lettori

Come cavie in un laboratorio

Tutto ebbe inizio all’incirca negli anni venti del 2100. Era oramai una verità accettata dalla maggioranza della gente che il cosmo aveva un ordine razionale, e che il compito di descriverne il funzionamento fosse un esclusivo dominio della scienza, quella reale che si esprimeva nel il linguaggio della matematica. Quindi, nessuno più credeva alle varie teorie balzane e antiscientifiche a cui molti degli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo avevano dato la propria fiducia. In particolare, per fare un esempio, si erano spiegati gli avvistamenti degli UFO come fenomeni naturali oppure come sviste, e nessuno più credeva ai cerchi nel grano, che si sapeva essere realizzati dall’uomo, ne a chi affermava di essere stato rapito, che poteva essere o un esaltato in cerca di facile fama, oppure uno ammalato di una patologia psichica che implicava, tra gli altri sintomi, le allucinazioni, perciò un caso da ricoverare in un centro psichiatrico. Il paradosso di Fermi si spiegava ormai col fatto che l’equazione di Drake era troppo ottimista ad indicare in centinaia o addirittura migliaia il numero delle civiltà nell’intera galassia; di conseguenza, a quell’epoca si pensava, nell’opinione comune, che sarebbe stato estremamente improbabile che un’altra razza senziente si fosse sviluppata, pur nei miliardi di stelle della Via Lattea. Eppure, queste teorie stavano per essere sovvertite. In un giorno rimasto storico nella storia dell’umanità, il caldo ventidue luglio del 2126, una presenza nuova poté essere avvistata nei cieli di tutto il mondo. Sopra ogni zona di terra emersa (e in alcuni luoghi anche in mare) apparvero degli stranissimi ma giganteschi oggetti, dalla forma sferoidale e fatti completamente di lucido metallo grigio, che non potevano che essere di origine artificiale; e di sicuro non erano oggetti terrestri, ma dovevano essere proprio alieni. Ancora più strana fu la modalità loro arrivo: un secondo prima non c’erano, e quello dopo erano apparse come dal nulla, perfettamente in posizione a circa cento meta dal terreno, senza un rumore e senza nemmeno spostare l’aria. Si calcolò che in ogni luogo fossero apparse nello stesso istante, con una sincronia praticamente perfetta, quasi incredibile. Le reazioni della popolazione furono quasi in ogni caso composte: a parte qualcuno troppo impressionabile, che arrivò addirittura al suicidio, pressoché nessuno ne era spaventato. Si pensava, razionalmente, che se gli extraterrestri erano così sviluppati tecnologicamente da riuscire a superare l’immensità del cosmo, possibilità ancora lontana dalle capacità tecniche dell’umanità, dovevano essere avanzati anche dal punto di vista culturale. Di sicuro, non potevano essere venuti in una maniera aggressiva: nella concezione dell’epoca, infatti, sembrava veramente assurdo che una razza senziente avesse superato l’immensità del cosmo solo per venire a fare la guerra ad un’altra civiltà. Del resto, le guerre erano finite anche su un pianeta che era stato molto bellicoso in passato come la Terra; perciò non c’era motivo di allarmarsi inutilmente. Tuttavia, la curiosità nei confronti dei visitatori era tanta, perciò furono inviati tantissimi messaggi di pace verso le astronavi, in ogni lingua mondiale (nella speranza che gli alieni, superiori com’erano, riuscissero in qualche modo a comprendere) e anche in codice matematico, che era il più adatto, essendo una lingua universale. Passarono diversi giorni, con le astronavi che continuavano, completamente immobili, a levitare nelle loro posizioni; ma tutte le antenne puntate verso il cielo non captarono nemmeno l’ombra di una risposta, a parte il lieve rumore di fondo che le navi non potevano evitare di generare.

I giorni diventarono settimane, poi mesi, e ancora anni. Le sfere, senza muoversi, senza nemmeno evidenziare la benché minima traccia di attività artificiale, rimasero a levitare ovunque erano apparse. Quella staticità allarmava alcune persone; ma la maggioranza della popolazione conviveva bene con quel fenomeno. Eppure, non c’era uomo, sulla Terra, che non si fosse almeno una volta domandato che senso avesse quella silenziosa presenza. C’era chi pensava che fossero disabitate, una specie di satelliti artificiali, inviati sulla Terra con l’unico intento di studiarla ed analizzarla; molti, pur non spaventandosi per questo fatto e mantenendo l’ottimismo, si sentivano comunque a disagio per questo, perché percepivano loro stessi come se fossero un po’ delle cavie in un laboratorio. Altri pensavano che quel fenomeno potesse essere addirittura naturale, frutto di leggi fisiche mai sperimentate fino ad allora, ma che comunque esistevano, vista quell’evidenza. Gli anni passarono, ma tutti i tentativi di spiegare con certezza assoluta la presenza di quegli strani oggetti non andarono in porto. Si provò addirittura a penetrare dentro le astronavi, avvicinandosi dagli elicotteri; ma non c’era alcuna apertura, gli sferoidi erano completamente lisci; ne si pensava di aprire un varco attraverso lo scafo, azione che poteva venire fraintesa come un atto violento, scatenando un malinteso che l’umanità non era disposta a sopportare. Così, il tempo passò, ma nulla cambiò, e nulla accadde.

Il ventidue luglio del 2137, undici anni esatti dopo la comparsa delle astronavi, sembrava un giorno come un altro: eppure, qualcosa stava per accadere. Alla stessa ora (sempre precisa al microsecondo) in cui gli sferoidi erano apparsi, senza preavviso e senza un rumore essi si misero in moto attraverso l’aria, salendo e spostandosi all’unisono, uscendo dall’atmosfera terrestre, e allontanandosi parecchio. Nel giro di un’ora, si disposero in una griglia precisa, in modo da essere omogeneamente distribuiti su tutta la superficie, terrestre o marina che fosse, e ad un’altezza che non era più di cento metri, ma di quasi trecentomila chilometri, quasi la distanza Terra-Luna. Ancora una volta, i terrestri provarono a comunicare con le navi, cercando una spiegazione a quel nuovo fenomeno, ma come sempre non ebbero risposta. Eppure, qualcosa stava per succedere: appena furono tutte in posizione, sempre con una coordinazione straordinariamente precisa, nella parte inferiore si aprì un portello, che prima era nascosto. Da lì, discese improvvisamente un fascio di luce ad alta energia. Gli uomini non si accorsero nemmeno che stavano evaporando, tanto fu rapido l’effetto dei laser, nemmeno ebbero tempo per aver paura: e in pochi centesimi di secondo, la Terra venne completamente vaporizzata, dalla sua superficie fino all’interno del nucleo, e non ne rimase che una nube di pulviscolo, il quale si espanse in tutte le direzioni.

La Terra non c’era più, era stata spazzata via completamente, ma alcuni sopravvissuti umani rimanevano sulla colonia di Marte, che era stato terraformato, e ospitava in quel periodo duemila persone circa. Dopo la scomparsa del pianeta madre, gli abitanti di Marte furono sconvolti e prostrati, tanto da non provare nemmeno ad approntare le difese; ma ebbero comunque la disperazione necessaria di comunicare con quei truci alieni, domandando loro il perché di quell’azione così turpe. A sorpresa, un messaggio venne inviato loro da una delle navette spaziali che ancora sostavano dove prima c’era il pianeta azzurro, in una lingua inglese non perfetta ma tuttavia alquanto comprensibile. I “marziani” fecero appena in tempo ad inorridire per il contenuto del messaggio: poi, in un attimo, nel loro cielo apparve lo stormo di navi nemiche, ancora perfettamente in formazione, e in pochi secondi tutto finì come sulla Terra.

Zig, figlio di Gig e di Trepo, venne duramente redarguito al comunicatore via cavo dal suo diretto superiore, il generale Baton, figlio di Haton e di Malkin. Perché aveva comunicato con gli umani? Eppure lo sapeva che i messaggi che arrivavano dalla Terra non provenivano da una presunta intelligenza superiore come la loro, ma erano una forma di comunicazione primitiva tra esseri non senzienti. Del resto, anche ammettendo che i terrestri fossero intellettualmente simili ai grovelliani, la situazione di crisi del pianeta Grovell non consentiva più la sussistenza di quell’esperimento. Quattro miliardi di anni prima, i grovelliani avevano introdotto tutti gli elementi chimici che consentivano la vita, come l’acqua e l’anidride carbonica, per sperimentare come i meccanismi dell’evoluzione potessero funzionare su un pianeta più radioattivo e particolare come era la Terra, e confermare quindi le leggi che i biologi potevano solo supporre, fino a quel momento. Eppure, da oltre venti anni terrestri a quella parte sul pianeta Grovell scarseggiavano quelle stesse materie prime, che erano fino ad allora stati sprecati e buttati via: l’acqua era così preziosissima e ancor di più lo era il carbonio di cui tanto i terrestri che i grovelliani erano fatti: e così, per sopravvivere a quella crisi, non c’era altro da fare che, dopo quattro miliardi di anni, terminare quel gigantesco esperimento e recuperare i preziosissimi elementi dal pianeta disintegrato. Eppure, per Zig non aveva senso distruggere anche il quarto pianeta di quel sistema: e avendo assimilato, in quegli anni, il linguaggio principale della Terra, si era sentito di spiegare a quelle entità inferiori, ma che nelle sue opinioni personali erano vagamente senzienti, ciò che avevano fatto. L’avrebbe pagata cara, quell’uscita dagli schemi che si era concesso: ma quello che non rischiava più di tanto, e piuttosto gli dispiaceva di più per quegli esseri che, pur essendo solo dei fantocci vuoti senz’anima, erano comunque una forma di vita in qualche modo affascinante; se non fosse stato per la crisi sarebbero stati da proteggere, come una specie rara. Eppure non si poteva fare altrimenti, purtroppo. Zig chiuse il calcolatore della sua postazione e si mise sulla via della plancia, per andare da Baton; proprio in quel momento, la nave si staccò dall’orbita solare, e saltò di nuovo nell’iperspazio con il suo prezioso carico di carbonio e d’acqua. Come essa, tutte altre le navi grovelliane, coordinate al microsecondo, sparirono dai cieli di quello che un tempo era stato Marte. Della Terra non rimaneva più nulla, nemmeno il ricordo.

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