mercoledì 31 dicembre 2014

2014

E come ogni anno, anche stavolta eccomi qui, col solito post di carattere personale, più per me stesso che per gli altri, a riepilogare questi 365 giorni che ci lasciamo stasera alle spalle. Comincio subito col dire che il mio 2014 è stato un anno così così, di colore grigio tendente al nero. Non nego che ci siano stati anche grandi soddisfazioni, professionali e personali, ed ho vissuto molti bei momenti, che tirano su anche di parecchio la media di quest'anno. E' stato merito principalmente della mia Monica, che ha reso speciale quest'anno passato totalmente insieme, in convivenza, e che è la persona che più vorrei ringraziare quest'anno; una parte del merito va però anche alle persone con cui ho lavorato e quelle che quest'anno hanno cominciato a seguirmi, per la maggior parte su Heavy Metal Heaven ma anche qui (perciò, mille grazie anche a te che stai leggendo). Dall'altra parte, però, è stato un anno estremamente stressante a causa soprattutto del mio nuovo lavoro in gelateria, non tanto per la fatica in sé quanto per essere stato costretto al contatto con un pubblico irritante ed idiota ad un livello che non avrei mai nemmeno potuto immaginare. Questo ha fatto crescere moltissimo la mia naturale misantropia, prosciugando totalmente le mie energie (fisiche e mentali) e la mia tolleranza: fatto sta che ancora oggi, a quasi tre mesi dalla chiusura della gelateria, ancora sento le mie "batterie" estremamente scariche.

Dal punto di vista creativo, in ogni caso, è stato questo un anno ugualmente molto positivo. Se mi avete seguito, avete potuto vedere che ho postato la bellezza di dieci racconti quest'anno qui su Hand of Doom (undici se contiamo anche il frammento "Un giorno di ordinaria gelateria"), ed alcuni di questi sono anche tra quelli che, per quanto poco possa contare il mio giudizio personale, trovo tra i migliori che abbia mai scritto. Ho anche cominciato un progetto pure più importante dei racconti, che procede a meraviglia, ma di cui non saprete nulla fino al suo completamento (che, nei miei piani, dovrebbe arrivare all'incirca nel corso di quest'estate). Dall'altra parte ho scritto tuttavia pochissime poesie rispetto al solito, ma non è stato né un caso né una questione di pigrizia, bensì una scelta conscia: di fatto, non mi ritengo un poeta decente ed all'altezza della situazione, mentre credo che i miei racconti siano nel paragone più riusciti e più apprezzabili, ed ho preferito perciò concentrarmi molto di più su questi ultimi.

Tendenzialmente, il mio 2014 è stato perciò negativo, seppur di poco, il che però da un certo punto di vista mi ha permesso di crescere ancora e di andare avanti. Forse quindi va bene anche così, non tutto il male in fondo potrebbe venire per nuocere, e magari, anche se adesso ancora non lo so, è stato questo un passaggio obbligato per raggiungere quel "vivere bene" che come dicevo nel bilancio del 2013 sarebbe stato lo scopo di quest'anno. Come sempre, chi vivrà vedrà, ma spero proprio che il 2015 sia un ottimo anno, molto meglio di quello passato; nell'attesa di conoscere se così sarà, auguro a tutti voi, miei pochi lettori, un felice anno nuovo!

E il vostro anno? Come è stato?

mercoledì 24 dicembre 2014

(i soliti) Auguri di natale!

Come sempre in questo periodo dell'anno, vorrei augurare a tutti voi, miei pochi ma stimatissimi lettori e sostenitori, che possiate passare le vostre vacanze natalizie nella maniera più felice possibile. Buon natale e (per il futuro) buon anno nuovo!

martedì 16 dicembre 2014

La scoperta

Come vi avevo promesso, ecco qui un nuovo racconto, tutto per voi! E' questo un racconto che ho cominciato diverso tempo fa, forse quasi un anno, ma dopo poco l'ho abbandonato: mi pareva infatti che il mio stile non fosse sufficientemente buono per riuscire a scrivere qualcosa di così particolare com'era questa bozza già dall'inizio. Qualche settimana fa l'ho ripreso e l'ho concluso senza toccare la trama, che è rimasta la stessa pressoché dall'inizio, ma cambiando molto a livello di forma: forse sarò maturato stilisticamente rispetto al tempo in cui l'ho inizato, o forse ho semplicemente più esperienza e più facilità di scrittura, chi lo sa. In ogni caso, è un racconto del mio genere più classico, di fantascienza; spero per questo che ve lo godrete, anche per il fatto che questo è l'ultimo post prima della pausa natalizia.

La scoperta

L’altimetro della plancia di comando della Parbas segnalava che la nave si trovava ormai in prossimità del terreno: era giunto il momento dell’atterraggio.
“Ci siamo!” pensò Æsper mentre alzava al massimo i razzi di frenata. La cloche si fece più rigida, e la nave cominciò a vibrare leggermente; il suo pilota la controllò però con mano ferma, guidandola finché le sue sei solide zampe d’atterraggio non si posarono con un lieve scossone sul terreno.
“E’ fatta, finalmente!” esultò tra se Æsper, sospirando e rilassandosi contro il sedile di pilotaggio. In quel momento la tensione accumulata nei lunghi minuti della discesa si sciolse di colpo, ed una fortissima stanchezza gli piombò addosso.
“La mia impresa può aspettare un giorno” pensò mentre si alzava cautamente, per poi imboccare il lungo corridoio che dalla sala comando portava alla cabina. Appena vi fu giunto si spogliò velocemente e si infilò nel letto, addormentandosi quasi all’istante.
Il suo sonno fu così pesante che al risveglio, per un momento, si allarmò nel non avvertire il lieve ronzio causato dal viaggio attraverso l’iperspazio, ricordandosi solo dopo qualche attimo dei fatti del giorno prima. Anche quando si fu svegliato del tutto, tuttavia, la sua epocale scoperta continuò a sembrargli irreale, quasi un sogno. Tutti i pianeti individuati fino ad allora nella breve storia dell’esplorazione iperspaziale di Erthæ erano totalmente inabitabili, per un motivo o per un’altro; quello invece, dalle analisi in orbita, sembrava avere un’atmosfera accogliente, con una quantità di ossigeno ed una temperatura più o meno analoghe a quelle del pianeta di Æsper. Gli unici problemi erano la gravità e la pressione, entrambi piuttosto basse, ma la tuta esplorativa poteva tranquillamente sopperire ad entrambe: era stata così semplice la decisione di scendere sulla superficie. La scoperta che lo avrebbe fatto reso famoso era però un’altra: nelle ultime fasi della discesa l’esploratore aveva notato delle irregolarità sul terreno, ed avvicinandosi ancora ne aveva potuto constatare la vera natura. Non erano rocce né formazioni geologiche di qualche tipo, sembravano invece essere alberi. Alberi! Era in assoluto la prima forma di vita aliena mai scoperta ed Æsper, di conseguenza, sarebbe divenuto il più famoso esploratore solitario nella storia di Erthæ. Non aveva altro da fare, per documentare l’impresa, che ispezionare un po’ la zona nei dintorni del luogo d’atterraggio e raccogliere campioni ed informazioni sulle forme di vita presenti, poi sarebbe potuto decollare di nuovo alla volta del suo pianeta. Così, dopo aver passato un’ora a fare rilievi dalla sala comando della nave, Æsper indossò la tuta esplorativa. Entrò quindi nella camera di pressurizzazione e premette il bottone di apertura: con un lieve clangore il portellone comincio a scorrere, lasciando per un momento fuoriuscire un intenso flusso d’aria. Rapidamente la situazione si stabilizzò, e Æsper poté affrontare la scaletta: era fuori! La prima cosa che lo colpì fu il terreno: era in apparenza ricoperto di qualcosa di simile alle rocce sedimentarie, eppure aveva una consistenza più friabile, per non parlare poi del suo strano colore grigio-rosaceo. L’esploratore raschiò via un po’ di scaglie di roccia dalla superficie e le mise in un sacchetto che infilò in una delle larghe tasche laterali della tuta: le avrebbe fatte analizzare al suo ritorno su Erthæ. Riprese quindi a camminare, finché non fu uscito da sotto alla pancia della Parbas; lì si fermo a guardarsi intorno. Il panorama, illuminato da una luce tra il bianco ed il verde chiaro, era simile in tutte le direzioni, ma ai suoi occhi appariva estremamente bello, di un fascino alieno, soprattutto per merito della foresta che circondava la piccola radura in cui era atterrato e creava un contrasto netto con l’azzurro del cielo, così simile invece a quello del suo pianeta natale. Æsper si diresse proprio verso il bosco, ed appena fu giunto al limite della vegetazione prese ad osservarla: erano alberi alti e di colore marrone spento, che si levavano altissimi e senza alcuna ramificazione, al contrario di quelli di Erthæ. Altre piante là attorno erano di colore nero, ma a parte questo erano simili in tutto e per tutto a quello davanti a cui lui si trovava. L’esploratore scattò qualche fotografia e prelevò un campione di corteccia da uno degli alberi; poi, eccitato alla prospettiva di nuove scoperte, si mise in cammino.

Vagò a lungo per la foresta senza incontrare un solo animale, nemmeno di piccolissima taglia. L’unica forma di vita presente sul pianeta, o almeno su quella parte di esso, erano evidentemente quegli alberi.
“Probabilmente questo è un pianeta giovane dal punto di vista evolutivo, gli animali non hanno ancora colonizzato la terraferma, si trovano solo negli oceani” ipotizzò Æsper, riportando alla mente i suoi vecchi studi di biologia. Continuò a camminare, scattando ogni tanto qualche foto, ma ormai il suo fascino per quel mondo era per gran parte scemato: il paesaggio era sempre uguale a se stesso, non cambiava quasi per nulla man mano che avanzava. Fosse stato un esobiologo probabilmente sarebbe stato ancora esaltato, ma lui non riusciva più ad apprezzare quella monotonia, per quanto imponente e rigogliosa.
“E’ il caso di tornare indietro, direi” decise infine, e si fermò nel mezzo della foresta: proprio in quel momento, notò davanti a se un piccolo movimento, quasi impercettibile. C’era qualcosa che camminava tra gli alberi in lontananza, e che si muoveva proprio nella sua direzione, rapidamente, quasi a balzi. Infine, spuntò tra gli alberi, trovandosi a pochissima distanza da lui: Æsper poté così vedere che era una bestia alta il doppio di lui e dall’aspetto orribile. Aveva un corpo tozzo e tappezzato qua e là da grosse escrescenze che culminava nella testa, piccola rispetto al resto ma comunque imponente, su cui oltre a due occhi spenti, da morto, spiccava una grossa bocca, ricoperta da piccoli tentacoli ed incorniciata da quelli che sembravano due lunghi baffi. L’esploratore a quella visione fu preso dalla paura, ma riuscì a mantenersi calmo, preparandosi a difendersi. L’animale volse per un attimo la testa verso di lui, mettendolo ancor di più in agitazione; poi, con gran sorpresa di Æsper, si raddrizzò e con un piccolo balzo riprese la sua marcia nella stessa direzione.
“Deve essere un animale erbivoro. Del resto qui attorno non sembrano esserci abbastanza prede di cui un carnivoro possa cibarsi” si disse l’esploratore, sospirando rinfrancato. Ora che la paura stava lasciando rapidamente spazio alla curiosità ed alla voglia di conoscere, decise sul momento di rincorrere quell’essere al tempo stesso così brutto e così affascinante.

Gli tenne dietro per qualche minuto, di corsa per non perderlo di vista. La fatica cominciò a farsi sentire, ed Æsper stava quasi per lasciar perdere l’inseguimento, quando l’animale si arrestò, in una zona dalla vegetazione meno fitta. Appena gli fu vicino, l’esploratore poté vedere che in uno spazio leggermente più largo tra gli alberi, quell’essere si era acquattato a terra e si scuoteva piano. Cautamente, cominciò ad avvicinarsi ancora di più, cercando di capire meglio cosa stesse facendo; contemporaneamente, un improvviso boato squarciò l’aria. Nel giro di qualche istante, dal nulla esplose una pioggia violenta che iniziò a percuotere con forza tutto il terreno lì attorno. Æsper si mise al riparo sotto un albero, mentre l’animale si trovava ancora allo scoperto: appena ne fu colpito, cominciò a scuotersi con foga, per poi accasciarsi a terra, stecchito. L’esploratore si stupì: si sarebbe aspettato che l’animale fosse abituato a quella strana precipitazione, che era probabilmente la norma su quel pianeta.
 “Deve essere pioggia acida. Chissà come hanno le forme di vita ad evolversi e a sopravvivere qui, su questo pianeta così inospitale.” si chiese Æsper. Lo scroscio durò pochissimo tempo, per poi estinguersi quasi di colpo. Quando vide che non cadeva più nemmeno una goccia, l’esploratore controllo la propria tuta: sapeva che poteva resistere a ben altro che ai pochi schizzi corrosivi che gli erano giunti, ma era meglio controllare che fosse tutto a posto.
“Nessun danno, neppur lieve.” constatò infine, sollevato, prima di prepararsi al rientro: ne aveva abbastanza di quel pianeta, almeno per il momento. Infilò le mani nella tasca degli attrezzi, alla ricerca del dispositivo che consentiva di far volare l’astronave fino al punto in cui si trovare: frugò a lungo, ma non riuscì a trovarlo.
“Dannazione, non c’è! Lo avrò lasciato sulla Parbas? No, ho controllato prima di partire e c’era. Mi sarà caduto mentre inseguivo quel mostro? Dannazione!” imprecò tra sé, mentre le sue dita si infilavano in un piccolo buco, che non aveva notato prima di allora. Senza quell’oggettino, l’esploratore era costretto a trovare la nave da solo: sconsolato, si volse perciò nella direzione da cui era giunto inseguendo il mostro e prese a muoversi.

Dopo un’ora di cammino, Æsper dovette arrendersi all’evidenza: si era perso.
“Dannazione a me stesso” imprecò, fermandosi in cima al pendio che affrontava ormai da un po’, credendo di averlo percorso in discesa all’andata. Si sentiva affaticato, nonché ansioso più che mai. Smarrito, si guardò intorno: da lassù si poteva vedere l’intero panorama, constatò subito. Davanti a sé vi era un pendio piuttosto ripido, che terminava bruscamente: partiva da lì una foresta dall’aspetto molto diverso da quella che aveva percorso fino ad allora.
“Oh mio dio, eccola là!” pensò d’improvviso Æsper, scorgendo una forma familiare: anche se piccola piccola, in lontananza, sembrava proprio la sua astronave. Ma come era arrivata laggiù, in quel posto in cui era certo di non essere mai passato? E come mai sembrava muoversi leggermente?
“Forse un altro di quei mostri ha trovato il comando a distanza, e giocandoci a caso ha inavvertitamente fatto muovere l’astronave. Oh, sia lodato il suo sistema automatico antischianto!” si disse Æsper. Non era molto probabile fosse andata davvero così, ma a quel punto, stufo com’era di quella escursione, non gli importava nulla: prese così a discendere il pendio, diretto verso l’astronave, unico luogo del resto dove avrebbe potuto scoprire la verità.

Scese molto velocemente, facilitato anche dal fatto che il terreno in quella zona non fosse per nulla accidentato: presto si ritrovò alla zona di confine che aveva visto dall’alto. Era un limite incredibilmente netto: la base di roccia finiva all’improvviso e ne cominciava un’altra all’apparenza di sabbia, o di terriccio. Anche la vegetazione cambiava radicalmente: alle ultime piante del tipo che aveva incontrato fino ad allora, stranamente dall’aspetto cadente e malato, se ne sostituivano di anche più alti, totalmente verdi, seppur di aspetto vagamente simile ai precedenti.  
“Forse questi alberi sono più simili a quelli di Erthæ, si alimentano con la fotosintesi” pensò l’esploratore fermandosi per un momento a guardarsi attorno, prima di riprendere il cammino. Continuò a muoversi in linea retta per qualche minuto,a passo rapido, finché non si ritrovò in una nuova radura, molto ampia e del tutto brulla. Dall’altra parte, con somma gioia, scorse la Parbas: era immersa tra gli alberi dall’altra parte della macchia e si spostava adagio.
“Il difficile sarà ora entrare di nuovo dentro, ma se riesco ad arrampicarmi su un albero e poi a saltarle sopra quando si tufferà di nuovo nella foresta, dovrei farcela” si disse l’esploratore, calcolando la direzione in cui si muoveva. Presto lo comprese, e corse verso la zona verso cui la Parbas si muoveva; appena vi fu arrivato, si mise alla ricerca di una pianta adatta al suo piano. La individuò, e si apprestò a salire, ma prima controllò che fosse sulla precisa traiettoria della nave: ciò che vide lo lasciò di stucco e lo spaventò. Quella che credeva essere la Parbas era in realtà un animale gigantesco, forse leggermente più piccolo della nave ma con una forma molto simile, a clessidra, le stesse sei zampe e lo stesso colore tra il rosso ed il nero: nessuno stupore che l’avesse scambiato per la sua astronave. La creatura continuava ad avanzare verso dove si trovava, anche più veloce ora, con atteggiamento aggressivo: mentre Æsper, mantenendo il sangue freddo nonostante la paura, tirava fuori dalla tasca la pistola, poté così notare meglio il suo corpo, irto di radi peli, e la grossa sua testa, con due occhi enormi ed assolutamente malvagi, due lunghi tentacoli rigidi ed una bocca grande e terribile, caratterizzata da due grosse chele dall’aria micidiale. Ora l’animale lo stava proprio caricando, emettendo un ruggito alto e ferino; l’esploratore però non si fece prendere dal panico, prese con calma la mira al centro degli occhi della creatura e poi sparò. Lo colse in pieno, ma l’essere non sembrò risentirne, diventò anzi ancor più agitato e furibondo ed arrivò quasi ad agguantare Æsper, che riuscì a schivarlo per un pelo, rotolando poco lontano, per poi rialzarsi e sparagli di nuovo al fianco. Il proiettile lo beccò ad una delle sue zampe, al che il mostro inarcò la schiena, gemendo di dolore.
“I piedi sono il suo punto debole!” realizzò in un attimo l’esploratore, cominciando a bersagliare le altre zampe dell’animale: in un momento gli mise fuori uso l’intero lato, e quando esso cercò di scuotersi e di continuare l’attacco, poté fare lo stesso con le gambe dall’altro lato.
 «Non te l’aspettavi, eh, bastardo?» gli urlò Æsper sfogando la tensione accumulata durante lo scontro, mentre il bestione ormai abbattuto al suolo rantolava in maniera pietosa. L’esploratore si avvicinò per finirlo quando con la coda dell’occhio notò un movimento provenire dal suo fianco: fece giusto in tempo a voltarsi per vedere un secondo mostro, simile all’altro, spuntare dall’intrico della foresta, prima che le sue chele lo afferrassero e lo tirassero su in alto, cominciandogli a stritolargli le ossa. Æsper cacciò un urlo di sorpresa e di terrore, poi le fauci si aprirono e si chiusero di nuovo, e tutto sparì nell’oscurità.

«Ma’, vieni qui! Fai presto!» strillò Andrea. Un minuto dopo, sua madre arrivò in giardino trafelata: doveva essere corsa giù dal primo piano della casa.
«Che diavolo succede? Perché hai urlato? Spero tu abbia un motivo valido, giovanotto, mi hai spaventato!»
«Guarda Lucky! Ha qualcosa di strano addosso!» disse il ragazzo indicando il suo cane nella cuccia.
«Cosa, quella roba lì? Non è niente, è solo una formica, di quelle rosse, non vedi?»
«Così grande, una formica rossa? E poi non si muove!»
«Eh, certo! Prima a Lucky ho dato l’antipulci, avrà ucciso anche quella!»
«Mi sembra strana lo stesso.»
«In ogni caso, ora gliela togliamo di dosso, quindi problema risolto» concluse la madre, allungando la mano. Le sue dita, così grandi e forti in proporzione, stritolarono così la navetta di Æsper e la gettarono lontano, cancellando ogni residua traccia del passaggio del minuscolo esploratore di Erthæ sulla Terra.

martedì 9 dicembre 2014

Mi dispiace...

Manco a farci apposta, i dolori di cui per la prima volta ho raccontato lo scorso martedì questa settimana si sono fatti pure peggiori,  a causa di un paio di accorgimenti che ho provato per renderli più sopportabili durante la notte e che invece hanno avuto esattamente l'effetto contrario. Di conseguenza, negli ultimi giorni ho sofferto fortemente d'insonnia, e proprio in seguito a ciò non ho potuto preparare a dovere il racconto che nei miei piani doveva uscire oggi. Sono molto dispiaciuto, ma questa settimana non riesco a postare altro che queste poche righe. Scusatemi, e mettetevi in attesa: la settimana prossima il nuovo racconto sarà online, promesso!

martedì 2 dicembre 2014

Italiani e diffidenza medica

Negli ultimi giorni uno degli argomenti di cui più si parla, nella blogosfera e sui social network, è la sentenza del tribunale di Milano che ha assegnato un vitalizio ad un ragazzino autistico riconoscendo la causa della sua malattia nella vaccinazione da lui fatta, nonostante tale tesi sia stata smentita ormai dalla comunità internazionale ed il medico che l'ha formulata sia stato condannato al carcere per truffa in Inghilterra. E' questo solo l'ultimo di una lunga serie di casi di antiscienza medica a salire alle cronache, specie negli ultimi tempi, in cui la diffidenza verso la cosiddetta "medicina ufficiale" sembra essere giunta ai suoi massimi livelli. Qual è però la causa di questo fenomeno? E' tutta colpa del solito popolo italiano, così ignorante? In parte sicuramente si, ma per una volta l'ignoranza secondo me non è l'unica responsabile della situazione spiacevole. La mia opinione, seppur da profano, è che la colpa stia anche nella medicina in sé, o meglio in chi la pratica: ho maturato questa convinzione attraverso le mie esperienze personali, che ora vi racconto.

La storia è cominciata oltre due anni fa, quando all'improvviso, suonando la batteria, ho cominciato ad avvertire dolore ai polsi, come fosse un'infiammazione. Capita a volte, ma basta qualche giorno di riposo per farsi passare questo tipo di sofferenza: con me però non ha funzionato, anzi nonostante il riposo il dolore è divenuto pure più forte. Visto che col tempo non guarivo, ho cominciato a vedere specialisti di vario tipo (un paio di ortopedici, un fisiatra, un neurologo) ed ho affrontato molti esami, alcuni dei quali anche decisamente spiacevoli (tipo la elettromiografia, in cui ti infilano degli aghi nella pelle e poi ti danno la scossa, un dolore che auguro solo ai miei peggiori nemici), ma nulla è stato evidenziato, l'unica cosa a diminuire per tutte queste cure inutili, di cui alcune pure in istituti privati, è stato il "conto in banca". Risultato di tutto ciò: in due anni nessuno è stato capace di dirmi che cosa ho, ed i dolori sono diventati così forti da costringermi ad abbandonare quasi del tutto la batteria, nonché qualsiasi attività un minimo pesante per braccia o mani (anche stendere il bucato ormai è troppo per me); effetto di ciò è stata la depressione (la batteria era la mia vita, un tempo) e l'aver preso anche diversi chili, vista l'ormai totale assenza di movimento. E, altra conseguenza importante, ho ormai perso del tutto la voglia di fare qualcos'altro per la mia salute, essendo ormai arrivato a pensare che è meglio tenersi i dolori di dover sopportare anche la beffa di essere preso in giro dai medici e di fare altri esami inutili, spendendo altro tempo ed altro denaro per un nuovo odioso nulla di fatto.

Di chi è colpa tutto ciò? In parte probabilmente è anche colpa mia, del mio eccessivo essere prevenuto nei confronti dei medici già dall'inizio della storia, anche se con buona ragione, direi: come non ricordare quella volta in cui una cisti batterica batterica mi è stata curata come contrattura muscolare, per non parlare poi della mia semplice depressione curata con farmaci anti-schizofrenici di cui porto pesanti postumi purtroppo ancora ora, a distanza di anni. Dall'altra parte, però, come tutte queste esperienze, ed in particolare quella dei miei dolori attuali, mi hanno insegnato, anche i medici hanno le loro colpe, con la loro incompetenza (se fossero competenti, qualcuno avrebbe scoperto cos'ho), con la loro mancanza di professionalità (non sono pochi quelli che non si sono presentati all'appuntamento o hanno trovato scuse per non vedermi), ma soprattutto con la loro totale incapacità di qualsivoglia rapporto umano con il paziente: di tutti i dottori che ho visto, infatti, solo uno mi ha trattato come una persona, scusandosi anche di non riuscire sapere cosa avevo, gli altri invece mi hanno sempre trattato con distacco, come carne da macello, con poca o nulla importanza. E' proprio questo il peggio di tutta la vicende, essere stato trattato male e quasi preso in giro da chi invece avrebbe dovuto aiutarmi e prendersi cura di me.

Cosa dire, davanti a tutto questo? Uno con una cultura scientifica più che discreta, come modestamente io credo di essere, riesce a comprendere come la colpa non sia della scienza medica, uno strumento di per sé né buono né cattivo come tutte le altre scienze, quanto nei medici, che fanno questo lavoro per i soldi e per il posto fisso assicurato (com'era fino a qualche anno fa, almeno), e non per passione e per voglia concreta di aiutare le persone. Ma chi invece una cultura di questo tipo non ce l'ha? Sicuramente la rabbia di venire trattato come sono stato io si rivolge non contro i singoli medici, ma contro la medicina in generale: è proprio dall'estremizzazione di questa tendenza secondo me che nasce la fiducia che la gente (e pure la magistratura, a volte) dà a metodi alternativi totalmente privi di efficacia come Stamina o come quello di Tullio Simoncini, mentre la medicina "ufficiale" viene considerata il male, giusto uno strumento dei potenti o di "Big Pharma!!!1111" per vendere medicine o anche per qualche motivo più losco.

Insomma, la mia opinione è che la dissaffezione dell'italiano medio nei confronti della medicina, derivi anche da chi la pratica, che con la sua incapacità sia professionale che di calore umano, allontana la gente da sé e dal proprio mondo. La soluzione? Certo aumentare la cultura scientifica media una grossa mano la darebbe, ma credo anche che al sistema medico servano dottori più competenti ed appassionati per consentirgli di funzionare decentemente, cosa da cui per ora siamo lontanissimi. Insomma, se anche uno scientista accanito come me continua a frequentare gli ospedali solo perché quasi costretto dalla propria famiglia, qualcosa vorrà pur dire, no?

martedì 25 novembre 2014

"Interstellar" di Christopher Nolan

La tendenza assoluta delle ultime settimane, in ambito "blogghistico", è quella di riportare la propria opinione su Interstellar, film di Christopher Nolan che sembra essere il caso del momento. Di solito non mi piace seguire le mode, ma in questo particolare frangente mi sento chiamato in causa: il film di cui tutti parlano è infatti proprio di fantascienza, e non potevo esimermi anche io dallo scriverne almeno una delle mie solite piccole recensioni.

La trama in breve (spoiler alert da qui): Interstellar è, dopotutto, un film di fantascienza catastrofica. La vita sulla Terra è minacciata dalla "polvere", che ormai forma spesso tempeste di sabbia, e da un morbo che colpisce tutte le piante e rende sempre più difficile le coltivazioni. Nonostante i fondi governativi siano ormai tutti concentrati sulla produzione di cibo, la NASA esiste ancora, seppur in clandestinità: il protagonista Cooper (Matthew McCounaghey) lo scoprirà, ed essendo un ex-astronauta, deciderà di partire per una missione segreta con altri scienziati (tra cui il dottor Brand, interpretato da Anne Hathaway) allo scopo di salvare l'umanità trasferendola su un nuovo pianeta abitabile o in alternativa popolare quest'ultimo con dei nuovi umani nati da una scorta di embrioni, attraversando uno wormhole scoperto nei pressi di Saturno. Dall'altra parte dello wormhole c'è un buco nero attorno a cui ruotano diversi pianeti: il team guidato da Cooper a causa di effetti relativistici causati dalla gravità nel sistema vivrà avventure che nel mondo esterno appariranno durare interi decenni. Presto, inoltre, Cooper scoprirà come in realtà il suo compito sia solo diffondere gli embrioni, e che non è possibile trasportare l'umanità altrove, compresa la sua famiglia, da lui abbandonata con riluttanza: vista questa impossibilità, e durante una crisi che porterà lui e il dottor Brand a rischiare di cadere nel buco nero, egli si sacrificherà per salvare la sua compagna. Nel buco nero, tuttavia, egli non morirà: scoprirà anzi un luogo in cui il tempo è una dimensione temporale, e riuscirà infine a chiudere la trama: era stato proprio lui  far scoprire al se stesso di anni prima il luogo dove la NASA si nascondeva. Infine Cooper capirà che a manovrarlo sono stati gli umani del futuro, che hanno scoperto come manipolare le dimensioni ed il tempo; una volta assolti i suoi compiti, essi lo faranno tornare nel Sistema Solare, dove dopo un centinaio di anni dalla sua partenza scoprirà che l'umanità è ripartita, anche grazie al suo contributo. (fine della parte degli spoiler)

Una delle cose che ho notato sin da subito, durante la visione del film, è il chiaro tributo di Nolan a 2001: Odissea nello Spazio (sia il libro di Arthur C. Clarke che il suo adattamento ad opera di Stanley Kubrik): sono molti infatti i riferimenti e le analogie che lungo tutta la pellicola fanno man mano capolino, da tante scene che riprendono quelle del film del 1968 fino ad arrivare ad alcune citazioni persino a livello di colonna sonora, con un tema simile al tema di apertura di "Così Parlò Zaratusthra" di Richard Strauss. Interstellar non è però solo una mera copia di 2001, ma ha anche altre caratteristiche lodevoli, in primis l'accuratezza scientifica piuttosto alta almeno all'interno delle scene visive: è un piacere vedere astronavi che esplodono ma senza sentire boati! La cosa migliore è però la realizzazione scenica : le ricostruzioni grafiche dei vari panorami è mozzafiato lungo tutte le oltre due ore e mezza di film, e risulta il suo punto di forza assoluto. Ottimo, in ogni caso, anche la caratterizzazione dei personaggi, resa in maniera profonda e mai scontata, con in particolare nessuna sottotrama forzatamente romantica che ha luogo tra il protagonista maschile e quella femminile (era ora!).

Dall'altra parte, il film non è però esente anche da qualche difetto. Il principale sono sicuramente i dialoghi: ogni tanto sono un po' confusi, e vi trovano posto anche alcuni strafalcioni scientifici piuttosto brutti ed evidenti, rompendo anche il rigore che invece viene mostrato negli altri frangenti. Questo è un problema anche non trascurabile, che rende il film meno valido, anche se non è poi così decisivo ai fini della trama. Qualche buco e qualche forzatura è presente anche nella trama, ma anche in questo caso il ragionamento è analogo: seppur si abbassi di valore, il film non ne viene squalificato totalmente.

Interstellar insomma non è un capolavoro ma comunque un ottimo film, appassionante e per nulla scontato, adatto per una (lunga) serata di intrattenimento. Ovvio, poi, se cercate un film a tutti i costi realistico nei minimi particolari non riuscirete ad averlo, come non sarete soddisfatti se volete un film semplice con cui spegnere il cervello per qualche ora; per tutti gli altri, però, questo è un film assolutamente da non perdere!

P. S. da questo post in poi ho deciso di inserire all'inizio dei piccoli bannerini, che mi aiuteranno a rendere meglio i post sui social network. Spero siano di vostro gradimento!

martedì 18 novembre 2014

Fanpage Facebook per Hand of Doom!

Quello che leggete in questo momento è esattamente il post numero trecento di Hand of Doom. Quasi non mi par vero che io sia riuscito a scrivere così tanto, mi sembra ieri che aprivo il blog, seppur in realtà siano passati quasi sei anni, e moltissime cose siano cambiate da allora. Per questa importante occasione così importante, ho deciso di rendere questo blog ancora più facile da usare per il pubblico: per farlo, ho finalmente preso la decisione di aprire una Facebook di Hand of Doom! In realtà non sarà proprio una pagina dedicata esclusivamente a questo blog, ma anche agli altri miei progetti di scrittura, come Heavy Metal Heaven, ed ogni tanto posterò anche qualcosa di più vario, forse senza attinenza con ciò che faccio ma che mi ha colpito; inoltre anche il blog in sé cambierà leggermente, nel layout ed in altri particolari, per meglio adattarsi alla sua nuova dimensione "facebookiana", come in parte già potete vedere.

La mia speranza è, comunque, che voi, miei pochi lettori, nonostante questi cambiamenti, continuiate ancora a leggere Hand of Doom. E, magari,che cominciate a seguirmi anche alla nuova pagina, che trovate da ora nel nuovo widget qui a fianco!

martedì 11 novembre 2014

"I reietti dell'altro pianeta" di Ursula K. Le Guin

Ho finito di recente di leggere "I reietti dell'altro pianeta" di Ursula K. Le Guin, autrice che in precedenza conoscevo di nome, ma di cui mai fin'ora avevo letto nulla. E' stata questa una cosa di cui ora mi pento, vista la qualità dell'opera che mi è capitata tra le mani; ma andiamo per gradi.

Cominciamo della trama in breve (ovviamente da qui partono gli spoiler): il libro è incentrato tutto sul personaggio di Shevek, un eminente fisico proveniente da Anarres, un pianeta in cui vige l'anarchia, l'assenza di qualsiasi governo e legge, ed in cui le persone vivono con gli ideali della condivisione e della fratellanza. Il pianeta ha inoltre un mondo gemello, Urras, simile per molti versi alla Terra del '900: il territorio è conteso tra gli stati socialisti e quelli capitalisti, spesso in guerra tra di loro; è da questo mondo che gli anarchici di Anarres sono fuggiti, ed è da allora che vivono in isolamento. Shevek, essendo ghettizzato sul suo mondo natale, comincerà a stabilire un contatto coi fisici dell'altro pianeta, finché non riuscirà addirittura a recarvisi, primo anarresiano a riuscirci dalla fondazione della sua comunità: nonostante gli urrasiani dello stato capitalista dell'A-Io lo rispettino molto, il fisico si renderà tuttavia conto che lo fanno per proprio interesse, in modo da potersi avvantaggiare sui rivali "comunisti" di Thu. Shevek capirà ben presto di non appartenere nemmeno a Urras, ma la sua spinta a "abbattere i muri ideologici" tra i due pianeti e più in generale tra le persone è troppo forte: aiutato dall'ambasciata terrestre in Urras, lo scienziato condividerà infine le proprie scoperte con tutte le nazioni e tutti i pianeti contemporaneamente, in modo che nessuno possa avvantaggiarsene. (fine della parte spoiler)

E' un libro molto "denso", questo della Le Guin, e non solo per il formato dei caratteri: in mezzo alla vicenda del protagonista, che in realtà è piuttosto scarna, l'autrice ci infila un mucchio di particolari, sia di carattere scientifico/fisico, che soprattutto, sociale/politico: il risultato riesce a trasportare il lettore dritto all'interno nell'ambientazione del romanzo, un mondo che è, del resto, estremamente ben dettagliato e descritto nei suoi minimi particolari. Tutto ciò, a seconda dei punti di vista, può rappresentare un pregio ma anche un difetto: ogni tanto infatti si fa anche fatica a stare dietro a tutto il groviglio di riflessioni e di piccole vicende del protagonista, anche per il fatto che i capitoli dispari del libro sono dedicati al presente mentre quelli pari al passato (in un dualismo che si ritrovano anche nella fisica temporale al centro degli studi del protagonista). Personalmente trovo però questo particolare soddisfacente: è bello infatti vedere un personaggio così umano e realistico come il protagonista (oltre ad avere in questo modo lo stimolo di rileggere il romanzo per cogliere meglio tutti i particolare). E' un libro talmente coinvolgente che anche qualche difetto stilistico, come l'essere a tratti molto raccontato e poco mostrato passa comunque in secondo piano, rispetto all'affresco generale del tutto.

"I reietti dell'altro pianeta" è insomma un capolavoro assoluto della fantascienza, che affronta temi da buona parte dei suoi sottogeneri (i viaggi spaziali, le spiegazioni scientifiche, l'oppressione politica, l'utopia/distopia, e così via) nella maniera migliore possibile. Se siete appassionati di questo genere, insomma, il consiglio è: fatelo vostro, a tutti i costi!

martedì 4 novembre 2014

Vera minaccia

Se si eccettua "Un giorno di ordinaria gelateria" del mese scorso, è qualche tempo che non posto più racconti. Non che abbia battuto la fiacca, in questi ultimi tempi: oltre ai miei tanti altri progetti, anzi, ho infatti portato avanti pure un paio di racconti, considerevolmente più lunghi della media di quelli di quest'anno, che necessitano perciò molto più lavoro, rispetto a quelli "normali". Questa settimana sono riuscito infine a completarne uno dei due, probabilmente il più breve, e finalmente a postarlo: è un racconto di fantascienza piuttosto classico, narrante della solita invasione aliena, anche se con risvolti... che ovviamente non vi spoilero! Null'altro se non: buona lettura!

Vera minaccia

Magnus Kallberg restò impassibile mentre la piccola navetta aliena a forma di uovo atterrava davanti a lui. In quanto presidente della Lega Terrestre, era obbligato a mostrarsi forte davanti ai suoi colleghi ed al mondo: intimamente però provava un certo timore. Poteva quella proposta d’armistizio essere in realtà una trappola per eliminarlo?
“No, è impossibile. Per quanto possano essere barbari, non oseranno mettere a rischio i membri di una delegazione di pace.” pensò, cercando di scacciare i pensieri negativi. Intanto, il portello sul lato della nave si aprì con uno sbuffo e ne discese una rampa.
«Prego, salire a bordo.» disse una voce metallica proveniente dall’interno della navetta, appena la scala ebbe toccato il suolo.
«Ebbene, popolo della Terra, è giunto il momento. Siate con noi col vostro cuore, e che esso sia ricolmo dell’auspicio e della speranza che la nostra missione abbia successo. Arrivederci!» disse Kallberg solennemente alle telecamere dei tanti giornalisti presenti, continuando ad ostentare calma. Quindi, lentamente si voltò, e scambiato un cenno d’intesa con i suoi due compagni di viaggio, si avviò insieme a loro in direzione della navetta.

Appena entrato, l’uomo notò subito l’assenza della cabina di pilotaggio e di qualsiasi equipaggio: vi era solo uno stretto ambiente dalle pareti dello stesso colore bianco purissimo, quasi irreale dell’esterno, che conteneva tre ampi sedili affiancati ed un paio di larghi oblò ai lati.
«Prego, sedere e bloccare le protezioni.» fece la voce meccanica. Kallberg prese posto sul lato sinistro, mentre il vice presidente della Lega, Lewis Grenwood, si sedette dall’altro lato; Anders Edkvist, l’unica guardia del corpo che era stata loro consentito di portare, si infilò in mezzo. Appena tutti ebbero allacciato le cinture, il portellone si mosse, arrivando infine a richiudersi. Non passò nemmeno un minuto che si avvertì una piccola accelerazione: Kallberg fissò allora fuori dal finestrino, dove il panorama aveva cominciato lentamente a muoversi.
“Forse troppo lentamente“ pensò il presidente dopo una decina di minuti. Erano saliti forse di venti chilometri, mentre la nave madre aliena, era noto dai rilevamenti, era in orbita ad oltre trentamila chilometri dal suolo terrestre. Stava per dire qualcosa quando Edkvist, quasi leggendogli nel pensiero, lo anticipò.
 «Non sembra anche a voi che ci stia volendo una vita?» disse nel suo solito tono, rispettoso ma con una nota di sarcasmo irriverente. Kallberg fece per rispondergli quando, all’improvviso, un dolore violentissimo e penetrante scosse violentemente tutto il suo corpo.
“Sto morendo” pensò, ma improvviso come era apparso lo spasimo si dissolse, senza lasciar la minima traccia. Il presidente riaprì lentamente gli occhi che non ricordava di aver chiuso, e constatò di essere ancora all’interno della navetta. Qualcosa però era cambiato: il blu scuro del cielo e le sfumature marroni e verdi della Terra fuori dall’oblò erano stati sostituiti dal nero del cosmo.
«L’avete sentito anche voi?» fece la Greenwood, la voce rotta che dimostrava uno sgomento presente anche sul viso di Edkvist e probabilmente pure su quello di Kallberg.
«Si, anche io. Probabilmente è questo il famoso teletrasporto.» rispose il presidente, cercando di mostrarsi tranquillo, anche se non era semplice: per quanto breve, era stata comunque un’esperienza decisamente intensa.

Passò giusto un minuto, poi negli oblò il buio fu sostituito da un’intensa luce bianca; quindi, con un lieve strappo la nave si fermò.
«Prego, indossare l’attrezzatura vitale.» disse la solita voce, mentre dal soffitto davanti ai sedili discendevano dei piccoli contenitori bianchi attaccati a dei cavi. Aprendoli, i tre uomini vi trovarono qualcosa a metà tra un sacchetto di plastica ed una maschera anti-gas. Subito dopo, un’immagine apparve in fondo alla navetta: era uno schema che illustrava il procedimento per indossare quell’apparecchiatura.
«Tutto ciò è estremamente strano… strano ma rassicurante, non trovate anche voi?» fece Kallberg, spezzando il silenzio che era calato.
«Che intende, Magnus?» chiese Greenwood.
«Beh, guardi quelle istruzioni, Lewis: sono state realizzate appositamente per gli esseri umani, come anche queste “attrezzature”. E questi sedili, poi: sembrano essere stati costruiti in un blocco unico insieme alla nave, non sembrano mobili, il che mi fa pensare che anche la nave sia stata costruita appositamente per noi tre. Insomma, credo proprio che se avessero voluto eliminarci, avrebbero potuto farci salire su una nave qualunque e poi vaporizzarci all’interno di essa.
«Comunque sbrighiamoci, non credo sia bene far aspettare i nostri ospiti.» concluse il presidente, cominciando ad indossare la sua attrezzatura vitale, mentre la voce metallica ripeteva di nuovo il proprio messaggio.

Una volta che i tre uomini ebbero addosso quella che pareva un’ampia maschera da subacqueo, che avvolgeva strettamente l’intera testa, lo schema sulla parete di fondo sparì. Subito dopo, sentirono che l’aria intorno a loro veniva risucchiata, un attimo prima che il portellone sì aprisse con uno sbuffo, riequilibrando la pressione.
«Prego, scendere.» fu lo scontato messaggio che risuonò nella cabina, una volta che la rampa ebbe finito di abbassarsi. Kallberg si affacciò dall’apertura e studiò il posto: la navetta quasi non si distingueva sullo sfondo altrettanto bianco dell’hangar, ma si riusciva a comprendere comunque che fosse un ambiente piuttosto stretto. I tre uomini scesero con calma le scale, ed  appena furono arrivati in fondo, il portello ricominciò a chiudersi: al tempo stesso, la larga parete davanti a loro si schiuse, cominciando ad allargarsi pigramente e rivelando lo spazio completamente oscuro alle sue spalle, uno squarcio nero che si faceva man mano più largo, divorando il candore del muro. L’ansia crebbe in Kallberg, mentre i minuti trascorrevano senza che nulla accadesse; poi dal buio, improvvisamente, emersero due figure. Mentre si avvicinavano  il presidente li studiò:erano due umanoidi molto alti, slanciati, dalla pelle bianca candida quasi come la loro nave, ed indossavano lunghe tuniche nere e grigie, che ne avvolgevano tutto il corpo, dalle spalle fino a terra. Erano i primi alieni che un essere umano avesse mai visto, o almeno i primi che rivelavano il loro vero aspetto, senza la tuta protettiva che ricopriva integralmente i soldati protagonisti dei raid sul suolo terrestre.
“Non me li sarei mai immaginati… così!” pensò Kallberg guardando quei due in faccia. Si era aspettato dei mostri o almeno esseri dagli sguardi feroci, ma quegli alieni avevano occhi placidi, con la pupilla orizzontale che li faceva assomigliare vagamente a capre, sensazione acuita anche dalle piccole antenne che partivano dalla sommità della testa ed andavano verso l’indietro e dalla folta barba sotto i loro menti. I due continuarono ad avanzare, fermandosi ad un paio di metri davanti agli uomini fissandoli con una strana espressione, apparentemente preoccupata seppur al tempo stesso tranquilla. Fecero un rapido inchino, subito imitati dai loro ospiti, e poi il più alto cominciò a parlare lentamente, con una voce acuta e melodiosa.
«Io sono Veshek Nalvar, segretario della nazione itinerante Hirutìn, e questi è il mio sottosegretario, Trevak Juitar. A nome di tutto il popolo Hirutìn, gentili signori, vi do il benvenuto a bordo.» disse la solita voce robotica parlando da altoparlanti piazzati all’altezza delle orecchie nell’attrezzatura vitale, a cui Kallberg non aveva fatto caso.
“Ingegnoso, un traduttore simultaneo” comprese il presidente.
«La ringrazio, signor Nalvar. Sono Magnus Kallberg, presidente della Lega Terrestre.» rispose cauto, mentre dall’attrezzatura provenivano suoni alieni, a conferma della sua teoria. I suoi accompagnatori si presentarono a loro volta, poi Nalvar riprese la parola.
«Prego, gentili signori, seguitemi. Abbiamo molte cose da dirci.» li invitò.

Il gruppetto venne condotto in breve ad una piccola sala molto intima, senza finestre e del solito colore bianco, nella quale l’unico mobilio erano cinque sedie attorno ad un largo tavolo. Quando tutti furono seduti, Nalvar cominciò a parlare:
«Dunque, gentili signori. Come ho già detto, abbiamo molto di cui parlare. Per cominciare, credo sia opportuno raccontarvi la storia del nostro popolo. Sempre se per voi non è un problema, ovviamente.»
«Se lo ritiene necessario, signor Nalvar, faccia pure» rispose Kallberg con fredda gentilezza.
«Lo è, gentile signore, ed a tempo debito ne capirà anche il perché.
«Noi Hirutin, dovete sapere, siamo un popolo molto antico. Ci siamo evoluti dalle forme di vita che abitavano il nostro pianeta, Tìn, in un periodo corrispondente, nella vostra unità di misura del tempo, a circa tre milioni di anni fa. Partendo da una situazione primitiva, ci siamo man mano evoluti tecnologicamente, fino ad arrivare a livelli molto superiori a quelli a cui voi attualmente vi trovate. Ciò nonostante, il nostro pianeta continuava ad essere diviso in tante nazioni, piccole e grandi, che di continuo guerreggiavano tra loro. L’assenza di conflitti era una condizione a noi ignorata, non abbiamo mai conosciuto nemmeno la situazione semi-pacifica da voi sperimentata in quelli che chiamate “Stati Occidentali”.
«Un tragico giorno di circa ventimila anni fa, nei nostri cieli apparve uno sciame di navette aliene, il primo contatto che Tìn avesse mai avuto con una forma di vita non proveniente da esso. I nostri avi, nei vari stati, cercarono subito di comunicare, di dare il benvenuto ai visitatori, ma i tentativi di comunicare andarono tutti a vuoto. Quel che è peggio, gli alieni immediatamente ci aggredirono in armi, cominciando a conquistare il pianeta e ad uccidere i suoi abitanti.»
«Ed è per questo che da allora voi fate lo stesso agli altri? E’ per questo che avete cercato di sterminare il nostro popolo?» lo interruppe Greenwood con una voce furibonda che Kallberg non aveva mai sentito prima. Il presidente lo guardò per un secondo, allarmato ed irritato: aveva saputo che il suo vice aveva perso la moglie ed il figlio in uno dei blitz fulminanti di quegli alieni e ne aveva appreso il dolore, ma non credeva che potesse avere quella reazione. Al contrario, Greenwood era noto per la sua leggendaria flemma: per questo Kallberg non aveva avuto dubbi su di lui come accompagnatore.
«Basta così, Lewis» ordinò, perentorio, per poi rivolgersi agli ospiti.
 «Perdonatemi, sono mortificato. Prego, signor Nalvar, prosegua, e scusi ancora per l’interruzione.»
«Si figuri, gentile signore, non ha importanza. Dunque, come stavo dicendo, subimmo questa invasione, ma inizialmente ognuno combatté per se stesso. Non tutte le nazioni erano state attaccate, ma invece di unirci, cosa che ci avrebbe consentito di sconfiggere il nemico anche piuttosto facilmente, continuammo a restare divisi. Avvennero invece fatti atroci: alcuni dei nostri approfittarono della difficoltà militare in cui gli stati confinanti sprofondavano dopo l’aggressione aliena e li assalivano a loro volta. Era ovvio che anch’essi, prima o poi, sarebbero stati presi di mira dagli invasori: perché avrebbero dovuto far distinzioni? A loro tuttavia non importava: riuscivano a guardare solo al presente, accecati dai paraocchi dell’odio per il diverso e del nazionalismo.
«Un’alleanza venne infine formata dopo mezzo anno, ma era già troppo tardi. Raccogliendo le nostre esperienze, riuscimmo a scoprire tutti i punti deboli del nemico, e cominciammo una lotta senza quartiere: la nostra rabbia era grande, visto che ormai ognuno di noi aveva avuto le sue gravi perdite. Ci volle un altro mezzo anno, ma riuscimmo infine a respingere i nemici; nella ritirata, pero, essi distrussero tutto ciò che ancora era in piedi, ed inquinarono più che potevano l’atmosfera, sfruttando e depredando ogni singola risorsa dell’immenso territorio che controllavano. I padri dei nostri padri ce ne hanno data una descrizione tragica e molto vivida: le foreste morivano a vista d’occhio per le radiazioni e per l’aria tossica e lo stesso capitava agli animali ed alle persone, che agonizzavano dolorosamente. La morte era ovunque. La distruzione avanzava inesorabile, ed in poco tempo ogni forma di vita sul nostro pianeta sarebbe stato del tutto condannata. Fin qui tutto chiaro, gentili signori? Avete domande?»
«Scusi, signor Nalvar, io ne avrei una» disse Kallberg.
«Prego, mi dica.»
«Ecco, lei ha appena affermato che i vostri – se così posso chiamarli – nonni vi hanno parlato dell’attacco al vostro pianeta, ma ricordo che poco fa ha detto che gli alieni sono giunti ventimila anni fa. Ho per caso frainteso io, oppure la durata media di vita della vostra razza è molto più lunga della nostra?»
«Mi scusi, non lo avevo specificato. In realtà noi non siamo poi così diversi da voi: stando alle nostre ricerche la vostra vita media si aggira intorno a cento dei vostri anni, mentre la nostra è sui centoventi. La parte di gran lunga maggioritaria dei ventimila anni successivi all’invasione di Tìn li abbiamo trascorsi in viaggio. Il nostro sistema di spostamento interstellare è quello che voi chiamate “teletrasporto”, solo applicato su distanze molto più lunghe. Come anche voi avete scoperto, è fisicamente impossibile, nel nostro universo, che la velocità della luce venga superata: anche il nostro teletrasporto deve sottostare a questa legge. Perciò anche se noi percepiamo un trasporto istantaneo, magari il viaggio che abbiamo compiuto è durato decine o addirittura centinaia di anni. Probabilmente, quindi, la nostra età reale si aggira su molti millenni, anche se la nostra vita effettiva non è che di alcune decine di anni, come la vostra. Ho soddisfatto la sua curiosità, gentile signore?»
«Si, signor Nalvar, scusi l’interruzione»
«Si figuri. In ogni caso, come ho detto poc’anzi, il nostro pianeta stava diventando rapidamente invivibile, e nonostante ciò fosse estremamente doloroso, non potevamo rimanere. I nostri scienziati riuscirono a far funzionare alcune delle navi aliene che avevamo catturato, e potemmo così abbandonare per sempre la superficie di Tìn mentre la sua biosfera esalava l’ultimo respiro.
«Per qualche anno, il nostro intero popolo rimase in orbita intorno al nostro pianeta natale. Tuttavia, scendere sulla superficie per procurarci le poche risorse di cui avevamo bisogno aveva forti effetti psicologici su chi lo faceva: le misure di sicurezza fecero si che nessuno morisse in missione, ma tra quelli che vi partecipavano vi era un altissimo tasso di suicidi. Infine, si decise quindi di abbandonare per sempre Tìn ed il suo sistema solare, per non tornare mai più, utilizzando la tecnologia del teletrasporto acquisita dagli alieni. Ma cosa avrebbe potuto fare il nostro ormai piccolo popolo in seguito, senza più possedere un pianeta? Alcuni di noi proposero di trovare un mondo disabitato da colonizzare, cosa che successivamente misero in atto; ma troppo forti, in troppi di noi, erano ancora le ferite della guerra. Una grande parte degli Hirutìn decise perciò di emendare le proprie colpe intraprendendo una missione senza fine, cercando pianeti abitati da altre civiltà e mettere queste in guardia contro ciò che era successo a noi. Il primo tentativo tuttavia fallì miseramente: il popolo Mèlmram, abitante il primo mondo che visitammo, non volle ascoltare le trasmissioni radio che gli inviammo, e ci attaccò quando divenimmo insistenti; preferimmo a quel punto fuggire a gambe levate che rispondere. Non sappiamo cosa sia successo nel frattempo, ma è molto probabile che a loro sia andata peggio che a noi. Qualcuno di voi, gentili signori, si intende di astronomia?»
«Io! Sono un astrofilo amatoriale.» si propose Edkvist, sorprendendo Kallberg, che non conosceva questa passione della sua guarda del corpo.
«Riconosce questo corpo celeste?» intervenne Juitar, mostrando all’uomo un piccolo apparecchio video piatto che conteneva un’immagine variopinta.
«Certo! E’ la Nebulosa del Granchio, uno degli oggetti più famosi del nostro cielo.» rispose l’uomo, per poi spiegare, girato verso i suoi compagni:
«E’ il resto di una supernova, in poche parole di una stella a fine vita che è esplosa, ed ha lasciato questa nube di gas incandescente.»
«E’ quasi esatto, gentile signore, ma le chiedo scusa: sono costretto a correggere una delle sue affermazioni, anche se il suo errore è di sicuro in buonafede, dettato probabilmente dal fatto che la vostra cultura non fosse sufficientemente sviluppata all’epoca dell’esplosione.» fece Juitar.
«Non si scusi, lei ha ragione. La stella è esplosa intorno all’anno 1050, quindi circa un millennio fa, in un epoca in cui lo sviluppo tecnologico della Terra era praticamente nullo. O almeno, la sua luce è arrivata in quell’occasione, mentre la sua esplosione risale, mi pare di ricordare, a circa ottomila anni fa.»
«Ricorda bene, gentile signore. In ogni caso, nell’occasione di cui stavo parlando, i nostri astronomi hanno studiato quella stella, il sole dei Mèlmram: secondo loro, la sua vita non era affatto alla fine, ma circa a metà vita, e non era nemmeno abbastanza massiva da poter esplodere come supernova. Non sappiamo cosa sia successo in seguito alla nostra partenza dal sistema, ma è altamente probabile che i Mèlmram abbiano continuato a farsi la guerra tra loro per molti altri millenni, finché non sia stata messa a punto una qualche arma particolarmente potente e sofisticata che si è ritorta anche contro i propri creatori, facendo esplodere la stella.»
«In ogni caso», intervenne Nalvar, «dopo quell’esperienza, fu deciso di modificare decisamente il nostro approccio per svolgere quello che avevamo deciso essere il nostro compito nell’universo. Si discusse a lungo su cosa si potesse fare per unire il popolo diviso di un pianeta, e la soluzione fu trovata nella nostra storia. Gli attaccanti di Tìn ci avevano uniti ed in un certo senso salvati: probabilmente senza di loro ci saremmo comunque autodistrutti tra noi, per giunta estinguendoci totalmente, senza il loro teletrasporto. Dovevamo fare  perciò imitarli, in parte: aggredendo muti tutti gli stati del mondo di turno con brevi raid non totalmente distruttivi, li avremmo costretti ad unirsi per combatterci. E’ questo, lo avrete capito, il motivo per cui abbiamo attaccato la Terra, e sembra proprio che il nostro intento abbia avuto pieno successo.»
«Quindi, voi… voi avete ucciso milioni di persone, per questo? Avete sterminato a sangue freddo milioni di innocenti solo per unificare tutti gli stati sotto un’unica bandiera?» chiese Greenwood, lentamente e quasi con sofferenza. Nella sua voce non c’era più rabbia, solo uno scoramento estremo, sentimento che anche Kallberg provava.
«Si, è così» disse lentamente Nalvar, la strana espressione sul volto, aggiungendo quindi «O almeno è ciò che vi dovevamo far credere.»
Juitar intanto parlò bassa voce all’interno dell’apparecchio, senza farsi captare dal traduttore simultaneo: subito dopo la porta della stanza si aprì, e due figure vennero avanti. Kallberg ne fu sorpreso: non erano extra-terresti, bensì esseri umani come lui, una donna ed un bambino che per giunta gli pareva di aver già visto da qualche parte.
 «Mio Dio!» urlò Greenwood alzandosi in piedi, e poi continuando ad urlare si precipitò verso i nuovi arrivati, piangendo ed abbracciandoli.
“Ecco, è la famiglia di Lewis!” realizzò il presidente, anche se il suo sconcerto aumentava: era un qualche genere di inganno? O altrimenti, come facevano ad essere ancora vivi?

Vi fu qualche minuto di pausa, poi Greenwood si ricompose e sedette di nuovo al tavolo.
«Credo che debba una spiegazione a tutti noi, signor Nalvar.» disse Kallberg, deciso.
«Ovviamente. Vi è un motivo molto semplice per cui i suoi parenti, gentile signore, sono qui presenti, anche se li credeva uccisi. Come le nostre navette militari anche le nostre armi funzionano col principio del teletrasporto, oltre che con qualche semplice effetto speciale. Vi abbiamo fatto credere che i nostri fucili disintegrassero completamente i vostri corpi, mentre invece si limitavano a trasportarli a bordo di nostre navi approntate proprio per lo scopo. Le milioni di persone che pensavate essere morte sono quindi al sicuro, ibernate ma in perfetta salute, e quando lo deciderete le potremo riportare a casa senza alcun problema»
 «E’… tutto vero?» chiese Greenwood, commosso.
«Si, gentile signore.» rispose Nalvar, la solita espressione indefinibile sul volto. Seguì qualche momento di silenzio, poi cautamente Kallberg riprese la parola.
«Perché… perché tutto questo sforzo solo per l’umanità?» domandò piano, quasi con timidezza.
«Glielo ho già spiegato, caro signore. Lo abbiamo fatto per il vostro popolo, per la Terra.»
«No, intendevo un’altra cosa: cosa ci guadagnate voi, nel fare tutto ciò?»
«Nulla, gentile signore, eccetto la soddisfazione altruistica di avere favorito la guarigione di un pianeta. Credendo noi il nemico, voi avete allontanato in realtà quella che per voi è la vera minaccia, ossia voi stessi. Ora siete uniti, amici, lavorate insieme, cooperate, non lottate più tra di voi, per la prima volta nella vostra storia: è questo il nostro guadagno, la gioiosa consapevolezza di aver salvato un’altra civiltà da se stessa, e di averla indirizzata sulla giusta strada per la pace. Questo, ed anche il piacere egoistico della buona riuscita di una nuova missione.»
Ancora una volta cadde il silenzio per qualche momento, prima che Nalvar tornasse a parlare, il volto sempre corrucciato nella stessa impenetrabile espressione:
«Comunque, gentili signori, direi di concludere qui questa nostra prima riunione. Abbiamo ancora molte cose da dirci, ma siccome dovremo restare ancora per circa un anno nel vostro sistema solare, per ricaricare gli accumulatori d’energia delle nostre navi, ne abbiamo tutto il tempo, ammesso che voi ne abbiate voglia. Per oggi, perciò, penso che possa bastare così. Vi ringrazio, gentili signori, per essere venuti fin qui.»
«Grazie a lei, signor Nalvar, per tutto, soprattutto per ciò che avete fatto per la nostra razza, anche se non riesco ancora a capacitarmi della portata delle vostre azioni né tantomeno a capirne le motivazioni.» rispose Kallberg, per poi affrettarsi a precisare:
«Non è però colpa della sua spiegazione, che è stata chiara, semplicemente siamo noi umani che dobbiamo essere diversi, forse inferiori a voi nell’intelletto per comprendere.»
«Mi spiace solo che spesso il nostro popolo ha spesso ridicolizzato le idee new age secondo cui le divinità della mitologia non erano altro che visitatori celesti arrivati sulla Terra all’alba della civiltà. Voi, signori, siete proprio come divinità!» aggiunse raggiante Greenwood.
«Divinità, gentile signore? Mi scusi se la contraddico, ma io non credo affatto che noi lo siamo. Semplicemente, attraversando un’esperienza estremamente dolorosa e traumatica come quella del pianeta Tìn, siamo cresciuti come popolo, ed ora siamo moralmente più maturi di voi. Tutto qui.» concluse l’alieno, mostrandosi nuovamente corrucciato. E fissandolo, Kallberg comprese finalmente cosa quell’espressione significava: era in realtà l’equivalente alieno di un sorriso sincero su un volto gioviale.

martedì 28 ottobre 2014

Quattro conti sull'evasione fiscale italiana

Mentre stavo scrivendo il post dello scorso martedì, mi sono accorto con un po' di disappunto che il mio ragionamento avrebbe potuto sembrare del tutto teorico, senza mai scendere in particolari. Per correggere questo difetto, ho provato quindi ad inserire almeno un esempio pratico, a proposito dell'evasione fiscale in Italia: ho realizzato subito, tuttavia, che l'articolo in quel modo sarebbe divenuto troppo lungo e troppo espansivo, in ultima analisi noioso. Per questo, ho infine deciso di tornare all'idea di base, scrivendo un post di pura riflessione, anche a costo di rischiare di sembrare poco pragmatico; ho deciso tuttavia di non eliminare ciò che avevo scritto in surplus, bensì di realizzarci un altro post: quello che vedete qui sotto, appunto.

La manovra finanziaria attualmente allo studio del governo costerò alle casse dello stato 36 miliardi di euro, una cifra immensa che ovviamente comporterà altri tagli ai servizi per il cittadino. Ebbene, sapete quanto è la cifra che la sola evasione fiscale toglie ogni anno all'Italia? Le stime sono discordanti, ma oscillano tra poco più di cento miliardi e quasi trecendo miliardi di Euro (fonte). Ponendo che la cifra reale sia quella più bassa, quella di 130 miliardi di Euro, recuperandoli si potrebbero fare quasi quattro manovre finanziarie come quella del governo, mentre prendendo un valore medio di 200 miliardi di manovre ne avremmo cinque e mezza: tutte, ovviamente, senza dover tagliare un euro a chicchessia.

Chi è che causa questa evasione? Molti direbbero che sono i milionari, ed è probabile che in parte ciò sia anche vero, ma facciamo qualche calcolo, utilizzando questa fonte, secondo cui i super ricchi in Italia possiedono complessivamente un patrimonio di 336 miliardi di dollari, pari a circa 263 miliardi di euro; di questi, il 29%, ossia circa 76 miliardi di dollari, sono beni immobiliari, quindi il loro patrimonio monetario si può stimare (ovviamente con una possibile percentuale d'errore) in 186 miliardi di Euro. Ovviamente non è possibile che tutti questi soldi siano di competenza dello stato, anche con un evasione totale: applicando la pressione fiscale media sulle imprese d'Italia, che è circa al 68,6% (fonte), avremmo che la loro evasione è di 127 miliardi, il che è in linea con i 130 miliardi suddetti stimati. Attenzione, però: questi 127 miliardi di euro sono una stima massima, mentre i 130 sono una stima minima, ed è probabile che la forbice tra i due valori sia molto più ampia, se non altro perché 127 miliardi di euro significherebbe che ogni singolo super-ricco evade al cento percento le tasse che deve pagare, il che è estremamente improbabile. Più probabile è invece che tale evasione sia causata anche dalle imprese più piccole; del resto, anche se partiree delle esperienze personali non è molto scientifico (vi chiedo perdono), credo che a tutti sia capitato di non ricevere lo scontrino da qualche parte (ed a me, in gelateria, molte volte è capitato di clienti stessi che non lo chiedessero, con fastidio). Si può obiettare che qualche scontrino fatto o non fatto non fa la differenza, ma un altro semplice calcolo toglie ogni dubbio: se assumiamo, in un anno, 300 giorni lavorativi e facciamo finta che ogni azienda presente in Italia evada ogni giorno una media di 100 euro (il che, con la pressione fiscale equivale a circa 145 euro lordi, cifra al di sotto della portata giornaliera di un qualsiasi bar o ristorante), avremo che le circa 6 milioni e centomila aziende (fonte) che abbiamo in Italia si evadono 183 miliardi di euro, cifra ben al di sopra delle stime minime di evasione.

Se è impossibile insomma dimostrare con certezza di chi sia la colpa dell'evasione fiscale, se non altro perché le stime sono appunto tali, è comunque affermabile, con cautela, che ci sono buone possibilità che parte della colpa non sia dei "potenti", spesso additati in questi casi, ma di una parte delle persone comuni, tornando così all'idea di base dello scorso post. In ultima analisi, quindi, è colpa degli italiani se il nostro paese è povero: purtroppo però essi non lo realizzano né, probabilmente, lo realizzeranno mai, e continueranno a dare la colpa dei propri mali ai politici o agli immigrati. Triste ma vero, anche questa è l'Italia.

martedì 21 ottobre 2014

"E' (anche) colpa mia"

Ultimamente, si sentono molte voci su quale potrebbe essere il "grande problema" dell'Italia": la maggior parte della gente punta il dito contro la politica in generale, altri se la prendono con gli immigrati, altri ancora con l'Euro, e così via; insieme ai problemi, vengono anche elencate le soluzioni, che di volta in volta sono "mandiamo tutti i politici a casa", "via gli immigrati dall'Italia", "l'Italia fuori dall'Euro", e via dicendo. Ma è proprio vero che siano proprio queste le criticità del nostro paese, e che una volta risolte andremo alla grande? A mio avviso no, il grande, reale, punto debole dell'Italia è un altro; ma cominciamo dall'inizio, analizzando velocemente i tre esempi suddetti.

Il fatto che gli immigrati siano un problema è banale da smontare: gli stranieri che vengono dai paesi poveri fanno spesso lavori che un italiano non farebbe mai, vista la durezza estrema e i turni di lavoro massacranti che accettano di fare, percependo tra l'altro una paga non all'altezza degli sforzi; questo non è certo "rubare il lavoro agli italiani", come prendere qualcosa che qualcun'altro gettato volontariamente nella spazzatura non è considerabile furto. Lungi da un problema, gli immigrati sono invece una ricchezza: coi suddetti lavori, contribuiscono all'esistenza di moltissime imprese nel nostro paese e quindi a far girar l'economia, fatto di cui tutti, bene o male, beneficiamo. Ridicolo è anche additarli come criminali: è vero, ci sono immigrati che delinquono, ma sono una minoranza; ancor più minoritari sono quelli che non sono spinti dalla povertà ma vengono in Italia proprio con l'intenzione di farlo (anche se in questo caso la troppo morbida legge italiana e l'incertezza della pena sono co-responsabili). Il problema degli stranieri in Italia, insomma, nei fatti non è un problema.

Capitolo Euro: la maggior parte della gente pensa che la moneta unica europea sia la causa dell'impoverimento generale delle famiglie, ma in realtà questa è una delle più colossali bufale degli ultimi anni. Non serve che io la smonti: ci hanno già pensato i ragazzi dell'eccellente blog di debunking "Bufale un Tanto al Chilo" con questo ottimo articolo, a cui non credo di poter aggiungere altro. 

Terzo ed ultimo esempio, i politici. Sul fatto che per la maggior parte siano corrotti, inefficienti, che non facciano nulla di concreto per la gente comune ma siano capaci solo di favorire i "poteri forti" siamo (credo) tutti d'accordo, ma a me viene a questo punto da chiedere: perché la gente allora continua a votarli? Veramente, come ci vogliono far credere, non c'è alternativa? In realtà non c'è un motivo fisico per cui non si possa costruire un'alternativa qualsiasi alla classe politica odierna, l'unico problema è che poi essa non prenderebbe molti voti: esempio di questo può essere il Movimento 5 Stelle, che per quanto sia nella mia opinione un partito ridicolo, a cui non lesino mai critiche, è comunque alternativo, e dopo l'exploit del 2013 (non eccezionale, peraltro, visto l'impressionante astensionismo) ha visto ridimensionarsi il proprio bacino di voto. Perché quindi un alternativa non può avere successo? Per il motivo, evidentemente, che per molte persone il sistema va bene corrotto com'è. Del resto, la classe politica è sempre espressione del popolo che governa: la concezione di molti secondo cui in Italia saremmo un popolo di santi governato da dei briganti è di un'ingenuità assoluta, abbiamo invece una classe politica con alcuni onesti ma una maggioranza di ignoranti e/o disonesti, che governa uno stato assolutamente analogo, con alcune persone oneste ma una maggioranza di gente ignorante e/o disonesta, ed è questo il punto cruciale.
 
Cacciare gli immigrati, uscire dall'Euro o azzerare la classe politica insomma non servirebbero a nulla, per uscire dalla brutta situazione in cui è l'Italia, poiché c'è un unico modo in cui il nostro paese potrà tirarsene fuori: ossia, che si ammetta finalmente che il problema dell'Italia è il suo popolo, troppo ignorante, troppo disonesto, troppo poco solidale e soprattutto troppo scaricabarile. A questo problema c'è un'unica soluzione: che le persone prendano coscienza di tutto ciò, e che realizzino finalmente che, sì, in fondo in fondo la situazione dell'Italia "è (anche) colpa mia", e che cambino modo di vivere. Se mai succedesse, credo che non solo usciremo dalla crisi, ma potremmo diventare uno dei paesi più ricchi al mondo, grazie alla valorizzazione delle ricchezze naturali, culturali, storiche ed artistiche che abbiamo in una quantità tanto enorme che qualsiasi altra nazione nel mondo può solo sognare. Utopia pura, come è ormai in molti (troppi?) dei miei ultimi post? Può darsi, ma sta di fatto che se questo problema non sarà mai risolto, non saremo mai un paese normale, e nessun cambiamento in meglio sarà possible. Azzerate la classe politica, perciò, se volete, ma sappiate che i politici successivi saranno altrettanto corrotti: almeno secondo me, solo un grosso cambiamento culturale ed intellettuale può salvare l'Italia. Scusate, comunque, i toni da comizio.

martedì 14 ottobre 2014

Un giorno di ordinaria gelateria

Nelle scorse settimane mi sono imbattuto in un concorso letterario interessante, il cui tema è "la lettura", declinata in tutte le sue forme, e richiedeva racconti estremamente brevi: subito mi è venuta un'idea per il racconto, e così le ho buttate giù. Mi sono accorto tuttavia subito che il racconto che avevo scritto era troppo personale, e se forse voi fan potevate capirlo, in parte, chi non mi conosce minimamente non avrebbe capito il contesto in cui esso è ambientato: ecco perché ho deciso di pensare a qualcos'altro per il contest e di postare quello che ho scritto qui su Hand of Doom. Per quanto riguarda il racconto in sé probabilmente a molti potrà sembrare assurdo, poco realistico, ma fidatevi: per esperienza vi posso dire che è plausibile, e che episodi magari non simili ma analoghi succedono in gelateria quasi tutti gli weekend. Godetevelo!

Un giorno di ordinaria gelateria

«Non hai preso niente?» disse la donna al marito, che usciva a mani vuote dalla gelateria con una strana espressione corrucciata in volto.
«No, cara. Qui devono essere matti, o stupidi, o tutti e due.»
«Ma perché dici questo? Cosa è successo?»
«Pensa, tra tutti i gusti di gelato non hanno il pistacchio! Come fanno ad essere ancora aperti senza pistacchio, come?»
«Non ne ho idea, ma hai ragione, è sconcertante. Però non ti far rovinare questa bella giornata di vacanza solo per questo, ora cerchiamo un’altra gelateria nei dintorni. Andiamo, dai.» concluse la donna, salendo in macchina.

«Cos’era quel rumore?» fece il gelataio, spuntando dal retro del locale.
«Nulla, non preoccuparti, solo l’ennesimo cliente scemo, anche se questo lo era in maniera eccezionale.» rispose la ragazza al bancone.
«Perché? Cos’è successo?»
«E’ stato veramente assurdo! Questo tizio è entrato, ha guardato da lontano la vetrina dei gelati per un minuto, e poi mi ha detto: “mi spiace, signorina, ma visto che non avete il gusto pistacchio non prendo nulla”; quindi, senza nemmeno darmi la possibilità di dire qualcosa, ha girato i tacchi ed è uscito.»
«Il solito cliente che si aspetta il pistacchio verde acceso dato dai coloranti, e quando vede il marroncino del nostro pistacchio naturale non lo riconosce.»
«Si, ma sul cartellino c’è scritto “pistacchio”! Dannazione, sono così stanca di tutti questi clienti che non si sforzano nemmeno di leggere i cartellini dei gelati.»
«Anche io li trovo insopportabili, ma che ci vuoi fare? Questa è l’Italia, il paese dove nessuno legge, nemmeno cose così semplici.» concluse il giovane con una punta di malinconia. La donna lo guardò tornare al suo lavoro nel laboratorio un po’ mesto, e tra sé si disse, triste:
“Eh già, purtroppo è così. E tu, amore mio, dovrai fare ancora a lungo questo lavoro che odi così tanto, mentre il tuo sogno di vivere della tua scrittura è quasi impossibile. ”

martedì 7 ottobre 2014

Ed infine, il martedì

I lettori più attenti si saranno accorti che da qualche settimana sto postando tutti i martedì. E' stata inizialmente una scelta (o meglio una non-scelta) arrivata in maniera quasi casuale, ma poi ho pensato che forse una cadenza settimanale è quello che può scuotere Hand of Doom e fargli avere almeno un pochino del successo che secondo me è nelle sue possibilità. Sperando di essere sempre così ispirato come in questo periodo, proverò a rispettare questo schema: ovviamente a volte ci sarà anche qualche post scritto di getto in qualche altro giorno della settimana, ma nelle mie intenzioni il martedì sarà quasi sempre un appuntamento fisso, facendo eccezione solo nei mesi di agosto (periodo per me pienissimo per quanto riguarda il lavoro) e dicembre (per le vacanze di natale). Che dire: spero veramente di riuscirci!

martedì 30 settembre 2014

Blogger e lamentele irragionevoli

Ultimamente mi sono imbattuto, in molti dei blog che seguo, in post in cui il blogger di turno si lamenta del fatto che ormai pochi in Italia seguano blog seri e con post ben argomentati, preferendo invece stupidaggini assolute e contenuti immediati, in cui non bisogna nemmeno fare lo "sforzo" di leggere, non troppo a lungo, almeno; a volte a tale post segue addirittura l'annuncio della chiusura del blog in questione. Nel mio piccolo, non posso che essere d'accordo pienamente con loro: purtroppo il livello culturale medio nel nostro paese è drammaticamente basso, e chi parla di argomenti anche solo di poco elevati molto difficilmente riuscirà a raggiungere un pubblico vasto (dove con ciò si intenda qualcosa al livello dei siti mainstream che trattano, per esempio, il gossip). La situazione è difficile per tutti noi, insomma, e quindi credo che questo tipo di protesta sia non solo ragionevole ma condivisibile in toto.

Dall'altra parte, però, nella maggior parte di questi post le lamentele non si limitano al "non-lettore" medio di blog, ma si estendono anche a chi il blog lo legge, anche assiduamente: il problema diviene perciò non che vi siano poche persone che leggono, ma proprio il fatto in sé di avere pochi lettori. Messa così, sembra quasi la stessa cosa, ma in realtà una differenza c'è, seppur molto sottile: dalle parole di molti blogger a me personalmente sembra trasparire infatti, sottinteso, un certo senso di insoddisfazione verso il proprio pubblico, che viene visto come insufficiente e quindi in qualche modo poco valido. Forse gli stessi blogger non si accorgono di fare ciò, e la cosa non è assolutamente intenzionale: almeno a livello inconscio, però, è così che appaiono, almeno a me.

La cosa poi si fa ancora più esplicita quando negli stessi post si lamenta il fatto che ad un numero anche molto alto di visite corrisponde un numero sempre piuttosto contenuto di commenti sotto al post e di condivisioni sui social network, e che sarebbe meglio che tutti, invece, commentassero e condividessero. Come nella questione precedente, da una parte chi fa questo ragionamento ha anche ragione: tuttavia, mi pare un po' assurda la pretesa che sia dovuto qualcosa da un proprio follower, che è tale proprio perché, nella sua libertà d'azione, sceglie di seguire un determinato blog. In particolare, ci sono moltissimi motivi per non commentare un post (mancanza di tempo, poca voglia di scrivere in pubblico, misantropia), ma quello che di solito frena me personalmente è proprio il fatto che i blog che seguo sono molto argomentati: mentre una foto la si può commentare con una faccina o con quattro parole, spiegazioni molto lunghe e ben motivate mi portano a voler rispondere con commenti altrettanto profondi ed argomentati, e non sempre ho la voglia (o il tempo) per farlo. Il frangente condivisione è più difficile da spiegare, per me che spesso condivido i contenuti che più mi interessano su Facebook, tuttavia quale che siano i motivi il fatto principale è uno solo: mi sembra assurdo che uno per leggere un post su un blog debba essere obbligato a compiere determinate azioni, o anche soltanto la discriminazione tra utenti "virtuosi" che commentano e condividono ed utenti "di serie B" che invece leggono e basta, se non altro perché mi pare una mancanza di rispetto per buona parte del proprio pubblico.

Il fatto di gran lunga più assurdo è però un altro, dal mio punto di vista\. Fin'ora non ho accennato a nessun blogger di preciso e del resto non ho intenzione di farlo, ma sapete chi sono quelli che nelle scorse settimane hanno scritto questi post? Sono blogger tutto sommato piuttosto famosi, almeno nell'ambito del blog letterario/culturale, il cui "scarso successo" è quantificabile in parecchie centinaia di visite ed in qualche decina di commenti e di condivisioni per ogni singolo post. Ora, io mi chiedo: ma se queste persone si lamentano di quanto i propri risultati siano scarsi, io che dovrei fare? Dovrei farmi esplodere in un attacco kamikaze nella sede di Blogger.com? Di fatto i miei post qui ricevono massimo una decina di visite ciascuno, mentre le condivisioni altrui sono rare e i commenti praticamente inesistenti; un po' meglio va su Heavy Metal Heaven, anche se comunque più di una trentina di visite non arrivano a meno di eccezioni, per non parlare di condivisioni e commenti, nuovamente non pervenuti. Avrei perciò molte più ragioni dei blogger di cui parlo di lamentarmi dei miei fan, ma non l'ho mai fatto né ci penso nemmeno a farlo. In parte ciò è dovuto al fatto che so bene che in ogni lavoro a contatto con il pubblico la prima regola è sempre "mai insultare il cliente", ma soprattutto al fatto che io non mi sento scontento dei miei pochi lettori, proprio per niente. Certo, preferirei avere più fan, e mi farebbero piacere più commenti e più condivisioni, ma di sicuro non sono scontento di come è la situazione: se un fan mi visita ma non commenta e non condivide, comunque sono contento che mi abbia visitato; se ho poche visite, invece la colpa è in parte mia, che ho fatto poco lavoro dal punto di vista del "marketing" e della promozione, ed in parte della situazione culturale che citavo all'inizio, ma in ogni caso non è mai colpa dei miei lettori, tanto pochi quanto preziosi (e che colgo anzi l'occasione per ringraziare).

Da una parte, io riesco a capire la frustrazione e l'abbattimento che portano i blogger a queste uscite, ogni tanto coglie anche me quando vedo che post a cui ho lavorato molto (come questo, che è uno dei più elaborati ed anche importanti mai apparsi qui) hanno un successo sproporzionatamente basso; dall'altra parte però non riesco proprio a capire perché farne una questione di stato e soprattutto lamentarsene in pubblico, rischiando di allontanare anche lettori, per giunta. Non voglio fare appelli di nessun genere (anche perché, come già detto, nessuno legge, quindi è inutile), ma comunque spero che prima o poi questi blogger si rendano conto che i loro discorsi, per quanto giustificati, sono comunque irragionevoli, oltre che comunque sgradevoli per molti fan. Questa è la mia idea.

martedì 23 settembre 2014

Per assurdo, il seccesionismo

E va bene, il referendum per separare la Scozia dall'Inghilterra, lo scorso giovedì, non è andato a buon fine, ma ciò non imlplica che qualcosa del genere non lo si possa fare anche qui da noi, in centro Italia, per staccarci da Roma. Vorrei proporre  quindi un referendum per creare un nuovo stato, che comprenda le regioni del centro che funzionano meglio, ossia Marche, Umbria, Abruzzo e Molise. Però, dall'altra parte, c'è anche da dire che in Abruzzo, per la ricostruzione de L'Aquila, ci sono state infiltrazioni mafiose, quindi non li vorrei nel mio nuovo stato; allo stesso modo, il Molise... beh, è la regione per antonomasia che nessuno sa che cosa è, quindi via anche lui. Allora, arrivati a questo punto via anche l'Umbria, il fatto che Perugia sia stata designata come la capitale italiana della droga non mi piace tanto. Quindi, nuova idea: Marche stato libero... ovviamente però senza la provincia di Pesaro, che quelli sono più romagnoli che marchigiani, e pure senza quelle di Macerata e di Fermo, col loro accento da contadini buzzurri; togliamo anche Ascoli Piceno, allora, che stanno laggiù in fondo e chi li ha mai visti? Il nuovo stato comprenderà perciò solo la provincia di Ancona... però facciamo senza la zona costiera, che è piena di prostitute (e poi il mare non mi piace); togliamo anche Jesi, dove la viabilità è deleteria (e poi Valentina Vezzali mi è antipaticissima) e poi Fabriano, dove fanno la carta moneta, quindi sono al servizio dei politici italiani (complotto!). Anche i paesi limitrofi li togliamo, perché si, perciò si farà così: solo il mio paese, Serra San Quirico, diventerà una città-stato! Ah, però mi viene in mente che a Serra non sto simpatico a molte persone, quindi direi di restringere ancora di più il campo: il nuovo stato comprenderà quindi i pochi ettari dei terreni della mia famiglia, e la popolazione saranno le cinque persone che compongono la famiglia. Però... se ci penso, anche con loro ogni tanto litigo, quindi ecco l'idea definitiva: il nuovo stato sarà la mia sala prove nel giardino, e la popolazione sarà composta da una persona... me!

Se portando all'estremo in questa maniera il discorso sul seccessionismo il risultato è paradossale, nella mia personale visione del mondo anche l'idea in sé di seccessionismo è altrettanto assurda. Non entro nel merito della questione scozzese, anche perché in fondo sono quasi del tutto ignorante in materia, il ragionamento che vorrei fare è più generale, filosofico se si vuole: in un periodo come questo, in cui non solo la nostra democrazia occidentale (ok, l'Italia è un caso particolare di democrazia, ma consideriamo meglio gli stati esteri) ma anche la nostra stessa esistenza come razza umana è sempre più in pericolo, dovremmo unirci ed arrivare a sviluppare una nuova forma di rispetto e di tolleranza, che col tempo possa superare ogni forma di discriminazione, e rendere le persone più consapevoli dell'esistenza del prossimo e dei pericoli che tutti corriamo. Non sono così ingenuo da credere che un giorno ogni conflitto potrà venire meno, in quanto il conflitto è connaturato all'umanità, ma penso comunque che si possa arrivare un giorno ad un mondo in cui tutti (o quasi), più razionali e consapevoli, riusciranno ad agire per il bene comune, in unità d'intenti. Il mondo sembra però andare invece proprio nel senso opposto, e così ancora nel 2014 si vogliono creare ancor più confini, ancor più separazioni, ancor più discriminazioni. Questo non è soltanto sgradevole, è anche estremamente pericoloso, viste appunto la crescente minaccia che grava su di noi: spero che, prima o poi, l'umanità apra gli occhi sulla situazione in cui si trova, ed abbandonando concetti non solo irrazionali ma totalmente dannosi come religioni, razze umane e nazionalismi, riesca finalmente a vivere più unita. Mera illusione? Forse, ma chi può dirlo?

martedì 16 settembre 2014

"Imperial" di Alessandro Girola

Forse qualcuno tra voi si ricorderà del concorso Distopie Impure, a cui ho partecipato e che alla fine è stato annullato. Nonostante quell'evento ho comunque continuato (e continuo tutt'ora) a seguire Plutonia Experiment, il blog gestito da Alessandro Girola, organizzatore del concorso, nonché scrittore anche piuttosto affermato, almeno livello di underground. Data la poca fiducia (sbagliata, probabilmente) che nutro nei confronti del self publishing, fino a poco tempo fa di questo autore, che pubblica quasi esclusivamente su Amazon, non avevo letto nulla: quando però sul suo blog lo stesso Girola ha annunciato l'offerta del suo romanzo breve Imperial gratis, non avendo nulla da perdere e da spendere (si, lo so, sono un tirchione) l'ho acquistato. Prima di cominciare a parlare del libro, credo siano necessarie un parlo di premesse: la prima è che nonostante, come avrete capito, ci sia rimasto molto, molto male per l'amaro finale di Distopie Impure, non ho certo scritto questa recensione per sfogare il rancore o per qualche forma di vendetta; se siete perciò a caccia di recensioni cattive e taglienti (nessuna vergogna, a me capita spesso di farlo), questa non è ciò che fa per voi. Seconda puntualizzazione: io non sono un grandissimo lettore del genere horror (se vi dicessi quale grande autore del genere mi ha annoiato a morte, mi uccidereste), quindi questo articolo non ha alcuna pretesa di essere oggettivo, o di rappresentare l'opinione di un esperto.

Questa la trama riassunta in breve (come sempre, da qui spoiler alert). Il protagonista Jacopo ha una vita piuttosto squallida: dopo un divorzio alle spalle con una moglie fedifraga e la fine del suo sogno professionale di reporter di viaggio in Asia, ora egli lavora come telefonista per un azienda di succhi di frutta, vivendo ogni giorno uguale all'altro, senza quasi prospettive. Una notte, però, di ritorno dal lavoro sulla statale 36, si imbatte in una macchina che non si incrocia spesso sulle strade italiane, una Chrysler Imperial gialla del 1993, e per curiosità la segue finché non scopre qualcosa al di fuori dall'ordinario: accostatasi ad una prostituta, l'auto la fagocita, catturandola con degli strani tentacoli. Sconvolto da quello che ha visto ed anche dalla consapevolezza che a sua volta la macchina lo ha individuato, ma anche incuriosito e voglioso di un diversivo nella sua vita, Jacopo comincia a fare delle ricerche, che lo portano a trovare vecchie storie di partigiani su un carro blindato tedesco spiritato durante la seconda guerra mondiale e riferimenti alla leggenda mitologica della caccia selvaggia; in principio, accoglie tutto con un giustificabile scetticismo, ma man mano che va avanti con la sua ricerca, comincia a crederci. Scoperto il proprietario dell'automobile, si introduce nella autorimessa da lui gestita, ma è un passo falso: questi infatti lo scopre e si rivela sin da subito una minaccia. Succede però a questo punto che l'auto, che si è scoperto avere una volontà propria e poter parlare, uccide il carrozziere: la tenacia dell'ex giornalista l'ha infatti colpito, e lo vuole perciò come nuovo pilota. Jacopo accetta, ma non si fida dell'Imperial: scoperto accidentalmente il suo punto debole, molto banalmente il sale, riesce a portare la macchina in un impianto termale con una sala fatta interamente di tale sostanza, che la indebolisce ma non la sconfigge del tutto; a salvare l'ex giornalista dalla furia della creatura sarà però l'apparizione della vera caccia selvaggia, che finalmente scaccia dal mondo tale presenza demoniaca. (fine della parte di spoiler).

Se la trama insomma è abbastanza fantasiosa e particolare da cogliere l'attenzione, anche lo stile veloce ed incalzante di Girola fa il suo, riuscendo a tenere alta la tensione nei momenti che lo richiedono e rendendo il libro molto scorrevole, fatto tra l'altro favorito anche dalla sua brevità (tant'è che anche io, che di tempo per leggere ne ho avuto molto poco a fine agosto con la gelateria e tutto, ci ho impiegato comunque giusto una manciata di giorni a leggerlo). Dall'altra parte, qualche difetto questo stile lo ha, come una prima parte meno "mostrata" e più "raccontata" del resto, o qualche scelta di termini un po' astrusa (per esempio il termine tecnico "pseudopodi" come sinonimo di "tentacoli" è una scelta un po' spiazzante), ma comunque tutto sommato ciò è piuttosto veniale alle sorti del libro. Oltre a ciò, ho anche apprezzato le piccole citazioni nascoste qua e là (per esempio il riferimento alla Uno Bianca o quello a Sleipnir, il cavallo di Odino, che in pochissimi avranno colto, credo), le quali rendono il tutto più intrigante ed aiutano il lettore ad immergersi nel mondo creato dallo scrittore.

Pur non essendo chissà quale capolavoro, Imperial di Alessandro Girola è comunque un buon libro, eccellente se poi l'intento è intrattenersi per qualche ora con una lettura fantastica o dell'orrore. Personalmente, perciò continuerò a seguire questo autore, e leggerò con interesse gli altri romanzi autoconclusivi che con Imperial condividono lo stesso universo narrativo, sperando di trovarvi qualcosa di altrettanto interessante. 

venerdì 5 settembre 2014

Impressioni di Bubblews

E' da un paio di settimane che, computer in assistenza permettendo, sto mettendo alla prova Bubblews. Bubblews è un social network che al contrario di Twitter privilegia i post lunghi e ben argomentati: il limite minimo, sotto a cui non si può postare, è di ben quattrocento caratteri, ed oltre a ciò vengono messi in evidenza i post scritti in maniera migliore e più competente. La sua caratteristica che spicca di più è però un'altra: a differenza di tutti gli altri social network, le cui società trattengono per sé l'immenso ammontare degli introiti pubblicitari, Bubblews li re-distribuisce in parte tra gli stessi utenti; ciò nella pratica si traduce che ad ogni visita, like o commento che un post riceve, al suo autore viene accreditato un centesimo di dollaro, ed al raggiungimento dei cinquanta dollari ci si può far versare sul proprio conto tale cifra.

Se tutto ciò è ampiamente positivo, Bubblews ha anche qualche difetto: per esempio, il limite superiore dei caratteri è appena 8000 (ma tale limite si può facilmente aggirare dividendo i propri post in più parti), e soprattutto ha qualche limite di funzionamento (forse a causa del fatto che il sito è piuttosto "giovane", cosa visibile anche in qualche malfunzionamento, di tanto in tanto). Inoltre, cosa più importante, a meno di essere una personalità piuttosto famosa in internet (ossia, possedere almeno qualche decina di migliaia di follower su Facebook), è pressoché impossibile vivere "di solo Bubblews": io che non ho un gran seguito sono fin'ora riuscito infatti a mettere da parte poco meno di un dollaro. Poco male, comunque: anche se si guadagna così poco, è comunque estremamente gratificante vedere che la gente legge e a volte mette pure il like su ciò che scrivo, il valore morale di questi gesti supera di gran lunga quello monetario. Per me, che ho sempre pensato che qualsiasi tipo di scrittura, anche quella fatta con la maggiore leggerezza possibile, sia comunque un lavoro e come tale da ricompensare in qualche modo, in questo social network ho trovato un sito che consente effettivamente di farlo, ed è una vera e propria soddisfazione. 

Dopo questa prova, insomma, Bubblews è pienamente promosso, e credo che ci rimarrò molto a lungo, a postare racconti, post vari e recensioni di Heavy Metal Heaven. Che altro dire: se anche voi avete un account sul social network, "followatemi", trovate il mio account a questo indirizzo (metto il link anche qui a lato, tra gli "altri progetti"); se invece non siete su Bubblews, ma  vi piace quello che scrivo, comunque fate un click sui post che ci sono, e mi ricompenserete non solo con un centesimo di euro, ma anche con la gioia di essere valorizzato un pochino. Grazie a tutti!

mercoledì 20 agosto 2014

10 persone che non vorresti nel tuo locale

Essendo pieno agosto, tempo di svago per quasi tutti (tranne per me e per Monica ovviamente - è anzi il momento di lavoro più intenso per noi) ho pensato di scrivere un post più "leggero" dei soliti, seppur anche abbastanza tagliente. Essendo la nostra gelateria ormai aperta da oltre tre mesi, ho potuto osservare un campione significativo di clienti: molti di essi sono stati gentili e con alcuni di loro si è potuto anche discorrere in maniera interessante. Vi è stato tuttavia anche un grandissimo numero di clienti poco educati o che ci hanno dato dei forti grattacapi: in questa classifica, ne ho raccolto i dieci esemplari più rappresentativi, con l'intento di fare un po' di ironia e di esorcizzare un po' queste esperienze al limite del Kafkiano e spesso stressanti che io riferisco alla gelateria, ma che penso gran parte dei commercianti e dei ristoratori d'Italia viva quotidianamente. Ovviamente, come già detto, è una classifica ironica, e non deve essere presa con troppa serietà; detto questo, andiamo quindi con questa classifica, in ordine rigorosamente sparso:
  • Il monarca assoluto: fonda tutta la propria credenza su un dogma per lui incrollabile (anche se alla fine dei conti è, come tutti i dogmi religiosi, una stupidaggine di livello cosmico): avendo pagato l'incredibile prezzo di un euro e ottanta per un gelato piccolo, la gelateria automaticamente diventa di sua proprietà, e può farne quello che vuole senza dover chiedere conto a nessuno; può quindi comportarsi maleducatamente coi commessi, prendere le cose e spostarle a suo piacimento, sporcare il pavimento e via dicendo. La sua dominazione è assoluta ed incontrastabile, estendendosi anche dopo il suo passaggio: quando infatti il monarca assoluto decide di andarsene, ovviamente non gli spettano più compiti quale il rimettere in ordine ed il pulire lo sporco che ha lasciato, per quello ci sono infatti i suoi personali servi, che poi saremmo noi, i commessi della gelateria. 
  • Il ritardatario cronico: poco gli importa che la gelateria sia aperta mattina e pomeriggio, e nei weekend oltre dodici ore a orario continuato, lui arriva sempre e sistematicamente in ritardo rispetto all'orario di chiusura. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che il ritardatario cronico è ancora più egocentrico del monarca assoluto, e pensa che chiunque debba essere in qualunque momento al suo esclusivo servizio. Purtroppo per lui il mondo non funziona così, ma lui nella sua visione distorta del mondo non se ne rende conto, e seguita imperterrito ad interrompere i commessi che preparano la chiusura e che a quel punto non vogliono che staccare ed andare a casa a riposare, generando, sia con il mancato introito che con l'interruzione spesso condita con arroganza, odio a profusione.  
  • L'analfabeta: entra in gelateria e senza nemmeno degnare di un'occhiata i cartellini dei gelati o il listino chiede i prezzi o peggio richiede gusti non presenti nella vetrina, spesso anche con l'arroganza di sapere già tutto senza leggere. Le cause di ciò potrebbero essere varie, ma azzarderei che è proprio l'analfabetismo quella principale, e la prova principale di ciò è che esiste anche una sottocategoria di analfabeta che cerca di nascondere la propria condizione. Appena entrato, quest'ultimo se la prende con molta calma, e fissa per minuti interi tutto quanto c'è di scritto in gelateria; quando finalmente decide di prendere il gelato, ci si aspetterebbe che ormai sappia ogni cosa, ed invece puntualmente costui ti stupisce dimostrando che di quello che ha letto non ha capito nulla. Questa è purtroppo, inaspettatamente per me, anche la categoria più diffusa, comprendente la maggioranza di tutti i clienti che abbiamo: decisamente improponibile quindi invocare un ritorno alle scuole elementari, visto che non credo nemmeno il Fondo Monetario Internazionale abbia abbastanza soldi per pagare gli studi a tutta questa gente.
  • Il pigro terminale: personalmente, credo che la pigrizia sia scusabile (del resto sono pigro anche io), purché la si tenga in un certo modo sotto controllo, cosa che il pigro terminale evidentemente non è capace di fare. E così, dopo avergli detto che il conto per il suo cono piccolo è di un euro e ottanta, lui proprio non riesce a pagare il prezzo preciso, e deve per forza tirar fuori dal portafoglio una banconota venti, cinquanta o nei casi peggiori addirittura cento euro, forte del fatto che tanto il povero addetto della cassa non può mostrare la stessa pigrizia, e deve mettersi a fare i conti per poi arrabattarsi per raccogliere dalla cassa il mezzo chilo di monete e di banconote che serve da resto (ammesso che altri pigri terminali non abbiano prosciugato il fondo cassa, nel qual caso sono necessari ancor più salti mortali). E' una categoria molto vasta, quasi quanto la precedente, il che cozza un po' con il buonsenso: man mano che la pigrizia terminale va avanti, ci si aspetterebbe infatti che questa gente muoia, ritenendo anche il respirare un'azione troppo faticosa; chissà perché, purtroppo invece ciò non succede, e questa categoria continua imperterrita ad infestare il mondo.  
  • Il piccolo Attila: è (di norma) un ragazzino allevato da persone che se non appartengono alla categoria dei pigri terminali poco ci manca, e che non hanno fatto il minimo sforzo di insegnarli le regole basilari della civiltà né tanto meno un comportamento dignitoso. Purtroppo, il piccolo Attila ci tiene proprio a mostrare il disagio di questa mancata educazione a spese degli altri: rompe, mette in disordine e sporca tutto ciò che è possibile rompere, mettere in disordine e sporcare, tocca tutto si appoggia con le mani (quando va bene) o anche con tutto il corpo alla vetrina frigo insozzandola, urla e produce rumore a livelli di volume che nemmeno i gruppi metal più brutali raggiungono, e di norma conclude questa sua performance estrema facendo finire per terra il gelato; il tutto costringe i commessi a tonnellate di lavoro extra, di cui farebbero volentieri a meno. Per questi flagelli dell'umanità non esistono scusanti, nemmeno quella più ovvia del "sono bambini": ci sono altri ragazzini infatti (di norma stranieri, alla faccia di quell'orgoglio nazionalista che non mi capacito come possa esistere in questo paese) che invece sono composti, silenziosi ed educati al punto da ringraziare persino i commessi- Poche storie, quindi, cari genitori, se vostro figlio quando passa fa più danni di Al Qaeda la colpa è solo vostra, che non gli avete dato nemmeno uno delle centinaia di ceffoni che si meritava.
  • Il determinato: sono assolutamente serio quando dico che la sua perseveranza è ammirevole, vorrei possederla anche io, tuttavia, sarebbe ampiamente preferibile che questa determinazione fosse usata in maniera costruttiva, invece che nella costante ricerca di qualcosa di negativo nel lavoro altrui. Al determinato infatti ogni cosa fa schifo a priori e deve per forza trovarvi dei difetti, che del resto il nostro gelato ha davvero: pensate che scandalo, esso si scioglie al Sole, fa venire il mal di testa se lo si mangia troppo velocemente e -il peggio del peggio- è anche dannatamente freddo! E' particolarmente deleterio quando il determinato è genitore di un piccolo Attila, che ovviamente difende strenuamente: del resto se il cono finisce per a terra non è colpa di suo figlio, che sotto il Sole a picco di agosto saltellava tenendo il gelato a testa in giù, è colpa nostra che forniamo cornetti di sola cialda, senza alcun congegno anti-gravitazionale incluso.  
  • Il venditore: non gli interessa minimamente che tu stia lavorando in un locale pubblico, forse lo ignora persino: entra infatti senza nemmeno guardare dolci e gelati, punta solo a appiopparti la sua roba. Finché si tratta di lasciare volantini da esporre sul tavolino la cosa non da poi tanto fastidio (anche se questa gente un gelato potrebbero anche prenderlo!), ma quando invece è qualcuno che vuole per forza venderti la sua paccottiglia da quattro soldi e rimane lì a cercare di convincerti per interi minuti, magari anche a scapito di altri clienti, forte del fatto che tu lì ci lavori e quindi non puoi fuggire via a gambe levate come faresti per strada, la faccenda si fa decisamente odiosa, e diventa veramente difficile trattenere la voglia di armarsi di scopa e di passare alle maniere forti.
  • Il comico:  sosta sulla soglia della gelateria, almeno in apparenza voglioso di entrare, o addirittura entra senza remore, salvo poi uscirsene senza prendere alcunché, uno "scherzone" che non solo non fa ridere nessuno ma è anche una fastidiosa mancanza di rispetto per chi sta lavorando. Indecisione sul motivo per cui il comico mette in atto questo comportamento: forse crede veramente di essere divertente, o forse è semplicemente deluso che in un locale la cui insegna recita a caratteri cubitali "gelateria e pasticceria naturale" ci possano essere dolci e gelato. Particolarmente insidiosa la sua fusione con il monarca assoluto: in questo caso si siede allora sulle sedie della gelateria e magari bivacca tranquillamente col cibo preso dal bar a fianco, ma ovviamente a prendere un gelato non ci pensa minimamente: la maleducazione a quel punto raggiunge livelli così alti che anche i commessi, che sempre devono essere cortesi e gentili coi clienti (ma c'è anche da dire che costui non paga, quindi tecnicamente non è un cliente), si incazzano come iene e con decisione li cacciano via. 
  • Il disorientato: in certo qual modo una variante della categoria precedente, come il nome stesso suggerisce questo tipo di persona non possiede alcun tipo di senso dell'orientamento: per questo, è costretto ad entrare in gelateria per chiedere indicazioni stradali (spesso per l'Abbazia di San Vittore per la quale c'è un'unica strada piena di cartelli che la indicano, ed è assolutamente impossibile perdersi). Ovviamente, una volta ricevuta l'informazione di cui aveva bisogno non ha l'educazione né lo scrupolo di prendere nemmeno un dolcetto da un euro, ma probabilmente ciò accade perché il disorientato è parente stretto dell'analfabeta:  lì dove c'è scritto "gelateria e pasticceria naturale" lui evidentemente legge "ufficio informazioni".
  • Il fiero ignorante: ho voluto concludere questa classifica con il "botto", vale a dire con la categoria di persone a mio avviso più odiose in assoluto. L'ignoranza in se non è una colpa, del resto chi più chi meno siamo tutti ignoranti in qualche campo; il problema nasce quando non solo non si cerca di colmare la propria ignoranza, ma anzi si è assolutamente fieri  di essa, nel qual caso nascono dei veri e propri mostri. Il fiero ignorante riunisce infatti in sé tutte le caratteristiche già elencate del pigro terminale, dell'analfabeta, del determinato e del comico: non legge le scritte, spesso non compra nulla e soprattutto sminuisce ed insulta il lavoro dei commessi, preferendo al nostro gelato naturale (fatto quindi con materie prime pure, senza aromi artificiali, conservanti o coloranti di alcun tipo, e per questo più sano e più buono) quello artigianale normale (fatto con aromi artificiali e preparati industriali) o ancor peggio i gelati confezionati. Già causante disprezzo profondo quando esplica i suoi commenti fuori, è poi deleterio quando entra in gelateria per poi andarsene quando non trova gusti palesemente chimici come il puffo o il pinguino, che ovviamente noi già per filosofia repelliamo: la cosa che mi stupisce di più, in questi casi, è come la mia testa non esploda mentre tento di reprimere la mia intensa voglia di decapitare il soggetto in questione seduta stante.