giovedì 28 maggio 2015

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Ventisette è tre elevato alla terza, anche se per i miei malanni fisici di anni me ne sento almeno tre alla quarta, ossia ottantuno. A parte questo, è anche un'ottima età a cui morire, come ci insegnano Robert Johnson, Jimi Hendrix, Janis Joplin, e così via.

Ovviamente sto scherzando. Tanti auguri a me!

martedì 26 maggio 2015

8 idee sulla depressione

Girando per la rete in questi ultime settimane, mi sto accorgendo sempre di più che buona parte delle persone ha una concezione abbastanza errata e arretrata a proposito di un male strisciante e spesso frainteso come la depressione; ciò però è a mio avviso qualcosa di assolutamente negativo. Nel mondo esistono infatti circa centoventi milioni di persone che ogni giorno hanno a che fare con questa piaga (fonte), di cui cinque milioni solo nel nostro paese: sono dati allarmanti, che non solo dovrebbero far riflettere, ma anche far prendere la briga alle persone di informarsi un minimo (falsa speranza, lo so).

In ogni caso, la questione mi tocca molto da vicino: anche io purtroppo ho dovuto avere a che fare, almeno nell'ultimo decennio, con la depressione, e ad oggi mi ritengo ancora moderatamente afflitto da essa. La mia non è stata una bella esperienza, come è ovvio, ma comunque anche da questo ho potuto imparare qualcosa: oggi vorrei parlarne infatti in maniera distaccata (non è uno di quei miei post depressi che realizzo di tanto in tanto, quindi). Il mio principale scopo è proprio di condividere le mie vicissitudini per smontare alcuni degli stereotipi falsi o semplicistici che girano su questo male. Ovviamente, non essendo psicologo (e cercando di non improvvisarmi mai tale), non ho la pretesa che le mie risposte siano competenti: questa è da considerarsi semplicemente la mia modesta opinione, seppur suffragata appunto da molta esperienza e anche da un lavoro di documentazione sul web, breve ma (io credo) produttivo.
  • Chi è depresso è sempre infelice: è un cliché molto diffuso ma in realtà non è vero, almeno non in ogni caso, come ho potuto appurare sia di persona, sia nelle mie ricerche in internet. Di fatto, anche nei miei momenti peggiore non sono mai triste ogni singolo momento, posso vivere anzi momenti di gioia, per non parlare poi dei periodi in cui capita che io sia anche mediamente felice e sereno (come ad esempio gli ultimi giorni, peraltro). Ciò che mi differenzia dalla "normalità" però è che un vago velo di tristezza e di malessere è sempre presente in sottofondo, e basta davvero poco per farla esplodere di nuovo con tutta la sua forza. Tuttavia no, non si è costantemente giù di morale, noi depressi non siamo come ci disegnano di solito!
  • Un depresso è una persona chiusa al mondo: la maggior parte della gente ha evidentemente in testa un'immagine quasi hollywoodiana del depresso, che sta sdraiato in una stanza semibuia, piangendo e abbracciando il cuscino. Probabilmente qualche forma di questo male (perché ne esistono varie tipologie, secondo quello che ho potuto apprendere) si presenta in questo modo, ma per la maggior parte delle persone non è così. Vivere la depressione è semplicemente affrontare con sofferenza la propria vita, alla quale però non si rinuncia: prova ne è il fatto che nonostante io ne sia afflitto, continuo da anni il mio lavoro su Heavy Metal Heaven, e anche dai miei post qui poche volte traspare qual è lo stato d'animo che ho per la maggior parte del tempo (a parte nei suddetti "post tristi"). Il depresso chiuso nella sua stanza è insomma un brutto stereotipo.
  • Chi è depresso vuole solo stare da solo: è una visione simile a quella di prima e anche altrettanto sbagliata. Voi non potete capire quanto io patisca infatti la mia scarsità di persone con cui almeno scambiare qualche parola, probabilmente è proprio questa una delle causa principali della mia depressione! A sua volta, questa assenza di amici è causata dalla mia "incapacità sociale", di cui ho parlato varie volte in passato; di sicuro però tra le origini di quest'ultima non c'è di sicuro la depressione. Di fatto, credo che la solitudine è probabilmente una delle ragioni più diffuse all'origine della depressione.
  • La depressione è uno stato d'animo e non una malattia: questo è lo stereotipo che mi fa arrabbiare più di tutti. Al di là del fatto che la depressione è riconosciuta da ogni psicologo, psicanalista e psichiatra del mondo come una malattia anche invalidante, per uno depresso come me sentire una frase come me significa sentirsi sminuire. Paragonare infatti le sofferenze della depressione a qualcosa di passeggero e di fugace è infatti molto fastidioso, tanto quanto lo sarebbe per un amputato sentirsi dire che le gambe che non ha più non sono una gran perdita in fondo (sembra un'esagerazione ma in realtà non lo è, credetemi). E' un concetto molto difficile da capire per chi non ci è passato, ma potete fidarvi: ci sono poche cose dolorose e striscianti come la depressione. Altro che stato d'animo!
  • Basta cominciare a guardare il mondo con positività per uscirne: corollario del punto precedente e idea in qualche modo fastidiosa quasi allo stesso modo. Proprio in quanto malattia nemmeno lieve, non è affatto semplice uscire dalla depressione, forse è addirittura impossibile: la maggior parte delle persone infatti più che altro la tiene sotto controllo, anche se le sfortune della vita possono portare in certi frangenti a ricaderci. E' un po' come la dipendenza, dove la droga in questione è l'auto-infliggersi del dolore: non basta dire "oggi smetto" per farcela, servono tempo, forza di volontà e in alcuni casi anche l'aiuto di un esperto. Tutt'altro che una passeggiata, insomma.
  • Non ha senso essere depressi senza una ragione importante: in fondo questa non è propriamente una falsità, anzi, è un ragionamento che razionalmente non fa una piega. Perché vedere sempre tutto nero se magari non si possiede nemmeno una causa vera e propria a monte? Purtroppo però nessuno è veramente razionale al cento percento, ed è proprio per questo che chiunque può ammalarsi di depressione, anche se non sembra averne alcun motivo. Una buona dimostrazione sono i tanti depressi famosi della storia da Abraham Lincoln a Robin Williams, passando per Winston Churchill ed Ernest Hemingway: tutti personaggi che hanno avuto soldi, successo e ammirazione, ma che nonostante ciò si sono ammalati di depressione. Da fuori, razionalmente, chiunque può dire che avevano molti più motivi per essere felici che per essere tristi; tuttavia, per esperienza personale so che viverla dall'interno, in prima persona, è una cosa completamente diversa.
  • Non ha senso suicidarsi solo per la depressione: ragionamento analogo a quello precedente, che razionalmente ha una sua logica: perché suicidarsi per un male in fondo solo psicologico? Anche stavolta però il punto è che la depressione non è razionale, e soprattutto che per quanto possa sembrare "irreale" (e in fondo lo è davvero, volendo essere proprio materialisti), per chi la vive è una sofferenza assolutamente reale, che in alcuni casi diventa così atroce da non essere più sopportabile, portando la persona a suicidarsi o addirittura a far del male agli altri per sfogare tutto il male che si prova (come per esempio il pilota Andreas Lubitz, salito qualche mese fa alle cronache per lo schianto dell'Airbus sulle Alpi). Da questo punto di vista, un depresso può essere visto come, ad esempio, un malato di SLA che vorrebbe l'eutanasia per porre fine ai propri dolori, paragone forte ma che è in qualche modo calzante: in effetti questo male non è degenerativo né mortale, ma in fondo un sintomo di chi ne è afflitto è il non vedere nessun futuro e nessuna speranza davanti a sé, perciò la sua percezione è di essere effettivamente terminale. Purtroppo però, come già detto, la depressione non viene percepita come malattia, e questo fa nascere il pregiudizio che sia insensato e finanche stupido uccidersi solo a causa sua.
  • La depressione si cura con le pillole: ho lasciato per ultimo questo punto perché potrebbe essere il più "controverso", ma io personalmente ho pochi dubbi. Per quanto riguarda i disturbi psicologi (parliamo quindi non di gravi malattie mentali come la schizofrenia ma di semplici disturbi), gli psicofarmaci servono a poco o a niente. La mia esperienza parla chiaro in tal senso: sono stato per qualche anno in cura presso uno psichiatra che non mi ha mai "fatto sfogare", ha preferito sempre e solo darmi farmaci su farmaci, cambiandoli di volta in volta visto che erano totalmente inefficaci. Evidentemente poi sarò anche io che ne avrò trovato uno particolarmente incapace, visto che dopo un po' ha deciso chissà perché che ero schizofrenico e ha cominciato a darmi anti-psicotici ancora più inutili, se non a farmi stare davvero di merda (ma questa è un'altra storia). Di fatto, io credo, l'unico modo "terapeutico" per uscire dalla depressione è parlare fino a individuarne le cause e poi cercare di risolverle. Se poi serve, in qualche caso particolarmente grave e patologico si possono usare anche dei farmaci, io non sono radicalmente contrario al loro uso: dico semplicemente che da soli non servano a nulla, se non supportati da qualcos'altro. 
E voi? Avete mai sperimentato la depressione, o conosciuto qualche persona depressa?

martedì 19 maggio 2015

"Educazione Siberiana" e lo stile

La mia lettura di questi giorni è "Educazione Siberiana" di Nicolai Lilin, libro del 2009 che all'epoca della sua uscita divenne anche un discreto caso letterario, producendo pure un adattamento cinematografico nel 2013, diretto da Gabriele Salvatores. E' un romanzo molto particolare,che l'autore presenta come autobiografico, parlando della sua vita tra i criminali siberiani; almeno, così il libro è presentato, seppur ci siano diverse voci che affermano che il libro sia pieno di invenzioni e di inessattezze. Su questa controversia oggi non intendo esprimermi (anche perché non ho minimamente le competenze per farlo), come non voglio soffermarmi su quello che è il contenuto del romanzo, o tanto meno approntare la solita recensione. Qui voglio solo puntare il dito su un solo particolare: lo stile di scrittura di Lilin.

La lettura mi ha infatti fatto pensare che l'autore non sia un buon esempio per una persona che partendo da zero voglia approcciarsi alla scrittura, almeno per quanto riguarda il modo di scrivere. In particolare, a farmi storcere il naso è la sua abitudine a lunghissime divagazioni, per raccontare le storie parallele dei personaggi o dei luoghi che di tanto in tanto il protagonista incontra o, più spesso per spiegare particolari della cultura dei criminali siberiani. Per fare un esempio, c'è un certo momento in cui il protagonista, narrato in prima persona, cammina per poi fermarsi a prendere una pianta in fiore: a questo punto si stacca per una lunga narrazione sul motivo per cui va a prendere i fiori e sulla storia del fioraio. Il protagonista poi esce dal negozio  e attraversa un ponte con un nome particolare: stacco sul perché quel ponte ha quella denominazione, e così via. E' uno stile che alla lunga stanca, perché si perde facilmente il filo del discorso, il che non è aiutato certo dalla lunghezza immane dei capitoli (difatti i capitoli migliori sono quelli di poche pagine): il risultato finale appare più un malo tentativo di conciliare la biografia ("auto" o altrui) con un saggio culturale e storico, che un romanzo, il che fa riflettere sul fatto se la storia non fosse più adatta proprio per essere scritta in forma di saggio.

Probabilmente tutto ciò è dovuto alla scarsa familiarità di Lilin con la scrittura (e forse anche dalla volontà di scrivere il tutto direttamente in italiano, lingua  che padroneggia ma in cui sembra ogni tanto un po' goffo): dalla sua biografia peraltro non risulta che si sia cimentato con nulla di scritto prima di esso. Ciò è un'ulteriore conferma di quanto l'esperienza sia importante, per poter imparare a scrivere in maniera scorrevole e catturante. Per carità, poi, io non giudico un libro da un solo particolare come lo stile: a parte questa caratteristica, sto difatti trovando il libro molto interessante, e a dire il vero nemmeno troppo noioso. Tuttavia, credo che se fosse stato scritto in maniera più semplice e senza tutte queste divagazioni, lo avrei già finito; invece, sono ancora circa a metà. E' un fattore che alcuni sottovalutano, ma se volete essere scrittori la giusta via è questa: stare attenti anche a come si scrive, non solo a cosa!

martedì 12 maggio 2015

Macchia

Dopo la settimana del primo maggio e relativo weekend, pensavo davvero che sarei riuscito ad avere un po' più di tempo libero da dedicare ai miei progetti. Già, pensavo. La settimana scorsa è stata ancor più piena e occupata delle solite, purtroppo, perciò davvero non ce l'ho fatta a buttar giù nemmeno due righe in croce. Stavolta però non mi andava di far saltare ancora una volta il post del martedì: ecco quindi che ho deciso di postare il racconto di cui parlavo nell'incipit del precedente L'amore ai tempi di Amazon, da me accantonato perché non mi convinceva. Leggendolo, capirete anche il perché: è infatti un racconto che contiene idee abbastanza "impopolari", almeno tra un certo tipo di persone, che poi sono tra l'altro le mie idee sull'argomento. Spero vi piaccia lo stesso.

Macchia

La sua vita era stata una pacchia sin da quando si ricordasse. I suoi giorni trascorrevano lenti e tranquilli, con due pasti abbondanti al giorno e tanto riposo nel mezzo. Forse c’era un po’ di noia, ma per lui non era un problema: amava ogni più piccolo angoletto di quella sua vita. Gli piaceva scorrazzare nel suo rifugio, amava i pochi contatti che gli erano concessi coi suoi simili, ma soprattutto gli piacevano quei giganti, che gli portavano il cibo, lo pulivano e lo coccolavano, esseri quasi divini che splendevano di un bianco acceso. “Macchia” lo chiamavano loro, anche se per lui questa parola non aveva alcun significato: il suo suono però lo rassicurava e lo faceva sentire bene, ogni volta che veniva pronunciato. L’unica cosa che invece lo metteva un pochino in agitazione erano gli sproloqui del più anziano dei suoi simili, quello che chiamavano “Neve”. Quando erano tutti insieme, come un ossesso quel vecchio acido non faceva altro che raccontare strane storie: al di fuori di quel luogo di piacere e di gioia, diceva Neve, c’era invece un mondo crudele, in cui i pericoli erano dietro l’angolo e la vita appesa ad un filo. Neve raccontava poi che tutti i loro antenati provenivano proprio da quel mondo, e che il loro gruppo per qualche motivo era stato eletto dai giganti divini, che li avevano condotti in quel paradiso. Seppur quelle storie emotivamente lo turbassero, Macchia non riusciva nemmeno ad immaginarsi una cosa del genere, e come tutti gli altri tendeva a considerare Neve uno con troppa fantasia e qualche rotella fuori posto; venne però un giorno in cui sbatté il muso contro il fatto che si era sbagliato, e di grosso…

«Ecco, io proprio non capisco, Tony: come fai a continuare a mangiare il formaggio senza sentirti in colpa?» disse Stefano, alzando la voce.
«Ste’, ma che te ne importa?»
«Mi importa, eccome! Lo sai come le tengono le mucche, negli stabilimenti per il latte? Segregate in spazi strettissimi, lì ferme senza mai far vedere loro la luce del Sole. Non ti disturba, questo?»
«Ma…» cominciò Antonio
«Nessun ma! Non c’è nemmeno un  motivo valido per mangiare formaggio, visto che puoi assorbire gli stessi elementi nutritivi dalle verdure. Eppure lo dovresti sapere meglio di me, che l’essere umano è l’unico animale che beve latte anche da adulto: non crederai alla balla degli specisti secondo cui questo è un fatto naturale, vero?»
«Io non lo so davvero, se sia una balla o meno. Insomma, io non mangio più carne animale, ma non credo proprio che mangiare il formaggio sia sbagliato.»
«Non ami forse gli animali quanto noi? Perché se vuoi puoi anche rimanere in macchina, mentre noi andiamo.»
«Lo sai che li amo quanto te. Semplicemente, abbiamo qualche idea diversa, non puoi essere un po’ tollerante?»
«Le idee dannose non sono accettabili, quindi nessuna tolleranza, mi dispiace.»
«Se avete finito di bisticciare come bambini voi due lì dietro, saremmo praticamente arrivati» fece con irritazione Giuseppe dalla parte anteriore dell’auto, mentre cominciava a rallentare.
«Siete pronti?» chiese Mario dal sedile del passeggero, per poi riprendere, una volta che tutti ebbero assentito:
«Ok, allora mettete i passamontagna. Entriamo.»
I quattro uomini scesero dalla vettura ed a passo veloce si diressero verso il cancello, bloccato da un semplice catenaccio, che cedette subito alle tronchesi di Mario. Il gruppetto camminò quindi come stabilito verso la porta più vicina dello stabile che sorgeva in mezzo al cortile, accanto a cui era affissa la targa “Istituto di ricerca medica “L. Pasteur”. In breve riuscirono a forzare anche quella, e furono dentro al laboratorio. A quel punto i quattro si divisero per cercare gli animali: Stefano si diresse verso il corridoio che si apriva a sinistra, ed in breve ebbe successo.
«Li ho trovati» urlò, facendo accorrere gli altri. Si ritrovarono in una stanza la cui parete di fondo era del tutto ricoperta da gabbiette, dove placidamente un gran numero di topi bianchi si muovevano confusi.
«Poveracci, cosa vi hanno fatto? Non vi preoccupate, però, ora vi liberiamo tutti» disse Stefano, cominciando ad armeggiare sulla cerniera che teneva chiusa la gabbia più vicina. I suoi compagni si unirono a lui, e rapidamente riuscirono ad aprire le gabbiette, facendo sciamare i roditori al di fuori.
«Hai visto questo? Ha una macchia a forma di stella sulla testa, che carino!» disse Antonio, spalancando una delle ultime gabbie
«Più che carino direi che è un martire! Chissà cosa gli hanno fatto quei bastardi per fargli avere quella macchia, avrà subito chissà quali torture. Ma ora è libero. Siete tutti liberi!» disse, proprio mentre Mario spalancava l’ultima gabbia.

Macchia si sentiva spaesato e terrorizzato, la testa gli girava come mai gli era successo prima. Era stato svegliato all’improvviso nella notte da una confusione di luci e di suoni, che lo avevano agitato moltissimo; poi il suo rifugio era stato aperto da un gigante che non conosceva. C’era qualcosa di pauroso in lui: era scuro e non aveva la solita aura luminosa, ma era la voce alta che usava a spaventare maggiormente Macchia. Il gigante lo aveva preso e poi lo aveva lasciato andare, e seguendo istinto lui aveva seguito i suoi compagni, correndo fuori dal suo ambiente. Si era presto ritrovato da solo in un luogo con pochissima luce e con una temperatura fredda come non ne aveva mai sentite, ed aveva così compreso mestamente che Neve non era un folle. Aveva continuato a muoversi in preda all’angoscia per moltissimo tempo, ed ora si sentiva stanco e rassegnato: non gli sembrava di arrivare da nessuna parte e non sapeva come tornare indietro. Forse avrebbe fatto bene a rimanere poco lontano dal suo ambiente e a tornarci, ma in quei momenti di panico non ci aveva pensato, l’unica sua preoccupazione era fuggire il più lontano possibile da lì. Ed ora si trovava lì, sperduto in mezzo al nulla, con il freddo e l’ansia che lo facevano tremare. Continuò pian piano ad avanzare, finché ad un tratto non avvertì un odore. Non ne aveva mai sentito uno del genere, ma era dolce e molto buono: il nervosismo si trasformò all’istante in appetito, così decise subito di seguire la traccia olfattiva. Si avventurò in campo aperto e poi si ritrovò a dover percorrere delle strette gallerie, in cui passava appena, ma avanzò deciso. Si ritrovò quindi di nuovo allo scoperto, davanti all’imboccatura di un altro tunnel: l’odore era divenuto nel frattempo fortissimo, doveva trovarsi poco oltre quell’imboccatura. Macchia vi si infilò a fatica, quel posto era veramente angusto, ma alla fine riuscì a raggiungere il cibo: cominciò allora a divorarlo a grandi e avidi morsi. Anche il sapore era strano ma buono, tuttavia dopo qualche morso lo stomaco cominciò a fargli male. Il dolore divenne rapidamente tremendo, finché fu troppo atroce da sopportare: Macchia cacciò un tremendo urlo di dolore e di paura, prima che i sensi gli venissero meno.

Luca non aveva mai voluto seguire le orme del padre nella sua azienda di derattizzazione. Dopo anni passati a cercare un qualsiasi lavoro senza successo, saputo che l’azienda del genitore si sarebbe allargata con l’ingresso di un dipendente, aveva chiesto di entrare. Così, da circa una settimana seguiva suo padre in giro per le varie aziende alimentari della zona, imparando il mestiere.
«Natur-food s.r.l.. Non ho mai sentito questo nome.» disse leggendo l’insegna del capannone che gli era toccato quella mattina.
«E’ un’azienda che si occupa di cibo per vegetariani o non so cosa; almeno, questo mi hanno detto quando mi hanno contattato.» disse suo padre, smontando a sua volta dal pickup. Si diressero insieme all’ingresso e poi verso la zona in cui si trovavano le trappole, poco lontano dalla zona in cui una dozzina di operai lavorava alle catene di montaggio. I due fecero fermare per un attimo i lavori, come le norme igieniche imponevano, poi cominciarono ad aprire le trappole che erano allineate lungo il muro.
«Guarda questo quant’è grosso! Mi è capitato raramente di vederne di così grandi!» fece suo padre con tono scherzoso, alzando il braccio e mostrandogli un enorme ratto tutto bianco, con una sola macchia nera sulla testa, vagamente a forma di stella.
«E’ anche parecchio pulito, per essere un topo di fogna. Da dove viene, secondo te?» chiese incuriosito Luca, guardandolo da vicino. Se all’inizio quello spettacolo lo avrebbe disgustato, ora ci era abituato.
«Chi lo sa, ma che importa? Piuttosto, sbrighiamoci, che poi dobbiamo passare al distretto sanitario e non voglio fare tardi.»
Continuarono a svuotare e sistemare le trappole finché le esche non furono tutte rimpiazzate e i cadaveri dei roditori furono tutti al sicuro nei sacchi per lo smaltimento.
«Perfetto! Tu porta tutto nel furgone, io vado a far firmare le solite scartoffie al proprietario e poi arrivo, questione di due minuti» ordinò il padre a Luca, prima di andarsene.
“Una ventina di topi: parecchi, anche se forse questo è niente rispetto a quelli che hanno ucciso nei campi. Non è ironico, che anche i più convinti tra i vegetariani non possano non sterminare degli animali per mangiare?” si chiese tra sé il giovane, prima di sollevare sulle spalle l’armamentario e dirigersi verso l’uscita del capannone.

martedì 5 maggio 2015

"La Signora delle Tempeste" di Marion Zimmer Bradley

Essendo ultimamente, per ragioni personali, a caccia di libri fantasy e di fantascienza sempre nuovi da leggere, mi sono imbattuto lo scorso mese in un vero e proprio classico del genere: "La Signora delle Tempeste" di Marion Zimmer Bradley, autrice di cui avevo letto solo libri del ciclo di Avalon e non del più celebre ciclo di Darkover, di cui esso fa parte. Come sempre, a fine lettura ho pensato di spendere su di esso qualche parola: ecco il mio modesto giudizio.

Come sempre, la trama molto in breve (spoiler da qui): il romanzo segue le vicende nel magico mondo di Darkover di diversi personaggi principali, tra cui spiccano Allart Hastur, erede dell'importantissima casa Hastur ma riluttante al trono, sua moglie Cassandra Aillard, Donal Delleray, figlioccio di Mikhail, lord del feudo di Aldaran, e Renata Leynier, nobile minore e amante di Donal; la vera protagonista  è però Dorilys Aldaran, sorellastra di Donal e "signora delle tempeste" che possiede il potere immensamente sviluppato di controllare il tempo atmosferico e in particolare il tuono. Per vie traverse, tutti e quattro i comprimari arriveranno infine al servizio di Mikhail, signore di Aldaran, allo scopo di evitare che Dorilys sopravviva al mal di soglia, la terribile malattia che tutti coloro che hanno il "Potere" della magia attraversano nell'adolescenza. Purtroppo però la missione fallirà: dopo un matrimonio di facciata tra Dorilys e Donal, che causerà indirettamente l'assedio del castello di Aldaran, la "signora delle tempeste"sarà usata come arma per sconfiggere gli assalitori, ma ciò ne causerà il fortissimo mal di soglia che la porterà a uccidere inconsapevolmente Donal, per poi venire sigillata magicamente, sotto sua richiesta in un attimo di lucidità, per evitare che il suo potere possa danneggiare qualcun'altro. Il finale è quindi agrodolce, con questi tristi accadimenti che fanno da contraltare al destino di Allart, che dopo la morte del re suo fratello, causata tra l'altro involontariamente da lui stesso, salirà infine al trono. (fine della parte spoiler).

La cosa che più si segnala all'interno del romanzo è l'ambientazione: Darkover infatti non è un semplice contenitore ma un mondo davvero vivo, che seppur sia poco descritto dall'autrice riesce ugualmente ad avvolgere molto bene il lettore. Allo stesso modo, la Zimmer Bradley riesce a rendere plausibili tutti i personaggi principali: essi sono infatti persone sfaccettate e profonde, ognuno con una loro personalità. Certo, a qualcuno potrebbe far storcere il naso il fatto che, per esempio, i personaggi di sesso femminile siano sempre mansuete e sottomesse ai propri uomini; io però trovo che questo particolare dia un tocco di colore in più a Darkover, mentre personaggi dalla mentalità moderna in questo mondo semi-medioevale avrebbero decisamente stonato. Il particolare più riuscito è però la presenza di temi piuttosto profondi trattati in maniera assolutamente non banale, come appunto la sottomissione della donna verso l'uomo o il dovere verso la famiglia, presenza questa che non appesantisce il libro ma lo arricchisce. Dall'altra parte, il romanzo non è esente da qualche pecca: essendo uno dei primissimi lavori dell'autrice, si nota che lo stile non è proprio dei più scorrevoli, certo non come nei suoi libri futuri; in particolare, ci sono strani cambi di ritmo, che rendono la prima parte piuttosto lenta per poi accelerare molto nella seconda metà, che è molto più densa di fatti importanti. E' questo un particolare non trascurabile, ma che comunque sia riesce a non dar troppo fastidio, mentre la lettura avanza. 

La Signora delle Tempeste è un gran bel libro, magari non un capolavoro assoluto della letteratura ma comunque da leggere. Se siete amanti del fantasy medioevale serio e cercate un prodotto libero dai soliti cliché del genere, la Zimmer Bradley e i libri più fantastici del ciclo di Darkover vi sono altamente consigliati.