venerdì 7 aprile 2017

Il lavoro e la percezione di sé

Ci sono blog che pubblicano guest post abbastanza spesso, ma Hand of Doom non è mai stato uno di quelli. In parte è perché lo ritengo un luogo esclusivamente mio, personale al cento percento; in parte, perché il mio pubblico è poco, e sono consapevole che questo non attragga molto i guest-blogger. E così, nella storia quasi decennale del blog, ho pubblicato solo un guest post, risalente al 2015.

Questo però non significa che mi dispiaccia pubblicare contenuti altrui. E infatti quando un mio amico - che ha preferito rimanere anonimo - mi ha mandato un suo sfogo, gli ho proposto io stesso di pubblicarlo. Non solo per l'amicizia, ma anche perché contiene idee che condivido sulle storture del mondo del lavoro oggi. E anche se non parlo spesso di argomenti simili qui (anche se su Facebook mi capita spesso di condividere articoli simili), ho deciso di pubblicarlo lo stesso perché credo che sia una testimonianza che tutti dovrebbero leggere. Giudicate voi stessi se è così!

L’Italia è spezzata in due. Da un lato c’è chi cerca lavoro e non lo trova; dall’altro chi ne ha uno e non lo ama. Questo stato di insoddisfazione non riguarda soltanto me, ma il novantanove percento delle persone che conosco e che svolgono mansioni impiegatizie. I tempi sono cambiati. Fino a vent’anni fa la gente lavorava esclusivamente per lo stipendio, che costituiva il simbolo di una vita dignitosa: “il ventisette” meritava sacrifici esistenziali immensi. Oggi invece si hanno nuove necessità di realizzazione e di soddisfazione. Le persone non riescono più ad accettare compiti che non rispecchiano le loro esigenze psicologiche, specialmente se sono qualificate e preparate per ruoli più alti di quello che ricoprono. Non sono più disponibili ad accettare umiliazioni e soprusi. Non riescono a mettere da parte le proprie reali ambizioni per accontentare un sistema che punta all’annullamento dell’individualità.

Dite che esagero?

Allora come mi spiegate il fatto che, in certi ambienti, solo direttori e dirigenti abbiano il diritto di utilizzare il proprio titolo di studio? Premettendo che io sono contrario a etichettare le persone, se è proprio necessario parlare di dottori e ingegneri, si dovrebbe dare a Cesare quel che è di Cesare. Invece si creano delle ghettizzazioni: i Kapò sanno di non valere più dei loro impiegati, quindi li sminuiscono per elevare le proprie menti mediocri. Chiamano le persone per cognome, come a scuola. Danno del “tu”, e pretendono il “lei”. Hanno la pretesa di definire l’identità degli altri. Credono che il proprio ruolo doni loro l’onniscienza. Così, se uno dei loro sottoposti è uno scrittore, pretendono di controllare parola per parola ogni sua e-mail. Poi, magari, sono loro i primi a non conoscere la grammatica…

Nel regno dell’iper-controllo, i Kapò dicono agli altri cosa devono fare ma non spiegano perché, anche quando la questione ti riguarda direttamente. Vi faccio un esempio: un paio di anni fa, il dirigente mi chiese di fare un inventario del materiale presente nell’ufficio. Io eseguii il compito dando per scontato che l’obiettivo fosse riordinare gli archivi, ma dopo un paio di settimane due traslocatori sono piombati nella mia stanza e mi hanno quasi tolto la sedia da sotto le chiappe. Se avessi saputo che era in programma un trasferimento, avrei organizzato il lavoro in modo completamente diverso. Ciò però non è stato possibile, perché nessuno mi aveva detto a cosa servisse quel lavoro. Le informazioni, del resto, portano con sé la libertà di agire. E di riflettere. Ma la libertà mentale è poco accettata, perché porta disobbedienza e ribellione. Il lavoratore ideale è quello che dice “zi badrone” e non capisce un accidente. Del resto, una volta, mi è stato detto esplicitamente: “lei non è pagato per pensare ma per obbedire”. E siamo nel ventunesimo secolo!

Lo straordinario viene pagato solo se si rimane in ufficio almeno un’ora oltre il proprio orario. Questo perché un dipendente, in nome del senso di appartenenza all’azienda, dovrebbe essere disponibile a regalare il proprio tempo a un gruppo di milionari incravattati, come se l’assunzione fosse un debito da saldare vomitando sangue, e non il frutto di un contratto che prevede uno scambio alla pari.

Appartenenza. Questa è la parola chiave: siamo degli oggetti. Il nostro valore è pari a quello di un computer, di una scrivania, di una sedia. Siamo considerati “unità”, non esseri umani.

Vogliamo poi parlare dei piccoli soprusi quotidiani?

Se sei giovane, prima o poi qualcuno ti chiederà di portare un caffè in sala riunioni. Se sei in partenza e ti mandano in culonia a fare una commissione, ci devi andare e nemmeno ti rimborsano la benzina. Se parli al telefono (che sia un collega, la mamma o il dentista) il capo attacca l’orecchio alla parete e ascolta. Se ti lamenti del tuo capo perché i suoi modi ti causano attacchi d’ansia, vieni minacciato di licenziamento.

È vietato chiudere la porta degli uffici, anche quando c’è un collega che sbraita in corridoio e non riesci a lavorare. La sera puoi mettere al sicuro le tue cose, ma non sottochiave: la porta può essere solo accostata, così che i dirigenti possano entrare a lasciare dei documenti (o a controllare la tua scrivania?). Se accade, puoi star certo che il giorno dopo la trovi spalancata, affinché tu capisca chi comanda.

Io sono una persona positiva. Però cinque anni di corse forsennate e di scenate isteriche (perché, parliamoci chiaro: nessun errorino è perdonato con facilità, bisogna teatralizzare affinché il colpevole si auto-mortifichi) hanno innescato una lenta discesa che mi ha portato, lo scorso autunno, a non voler più uscire di casa la mattina. Non sto scherzando, ma non ne parlo volentieri. Né voglio accusare qualcuno. Però è inutile nascondere la testa sotto la sabbia. Bisogna dire le cose come stanno. E le cose stanno così: quando mi alzavo dal letto, avevo crisi di pianto e attacchi di panico. La persona con cui vivo mi doveva accompagnare sulla porta e convincermi che sarebbe andato tutto bene. La domenica sera mi facevo prendere dall’ansia all’idea della settimana che sarebbe incominciata. Avevo iniziato a fare discorsi strani, spaventando me stesso e i miei familiari. Inoltre, perdevo peso, soffrivo di insonnia, emicrania e gastrite. Ma, come emerso da alcune analisi, il mio corpo era sanissimo: avevo somatizzato il disagio psicologico. Allora ho fatto alcuni test con lo psicologo che mi seguiva. È emerso uno stato di assoluta salute mentale viziato però da un principio di esaurimento nervoso. Così, sono andato da un altro dottore, stavolta uno psichiatra. Ha richiesto un mese di pausa che, attaccato alle ferie e al Natale, ha quasi raddoppiato la propria portata. Avrebbero voluto prescrivermi un farmaco, ma io mi sono rifiutato perché sapevo di non averne bisogno. Il mio disagio era legato a cause esterne tant’è che, una volta a casa, ho incominciato a dormire come un bebè, non ho avuto un mal di testa che fosse uno, e ho recuperato un paio di chili: il mio corpo non aveva fatto altro che adeguarsi all’annullamento psicologico. Riprendendo spazio e libertà espressiva, ha ricominciato a respirare e a stare meglio. Mi sono dato degli obiettivi. E ho incominciato a lavorarci.  Da quando sono rientrato la situazione è migliorata, ma io non voglio illudermi. So chi sono, non sono questa roba qui, e non riuscirò mai ad adeguarmi a certe regole. Dunque, devo trovare una soluzione. E la soluzione c’è: trovare il modo di andarmene.

Post scriptum importante: forse qualcuno di voi ha riconosciuto l'autore del post. O forse ha persino letto una primissima bozza di questo articolo. Se è così, vi chiederei di non rivelare nei commenti l'identità dell'autore e di rispettare la sua scelta di anonimato. Chi infrangerà questa regola vedrà il proprio commento cancellato. Non è una prospettiva piacevole, mi sembrerebbe quasi di censurarvi (del resto non ho mai cancellato un commento su questo blog, a eccezione di qualche duplicato): conto quindi di non averne bisogno.

4 commenti:

  1. So bene di cosa parli: ci sono passato anch'io. Adesso va un po' meglio, ma la voglia di andarsene non se n'è andata.

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    1. "A volte il salto nel buio si deve fare. Non siamo nati per soffrire"
      (risposta dell'anonimo autore del post)

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    2. Svegliarsi la notte in un bagno di sudore e ansimare in preda a crisi respiratorie in cui sembra di annegare. Sentire il petto pesante come se qualcuno si fosse seduto sopra. Sentirsi inutili, inadeguati e non vedere vie d'uscita.
      Sensazioni orribili che nessuno meriterebbe di provare. Ci sono passato e dopo non poche tribolazioni sono giunto alla conclusione che non vale la pena rovinarsi la salute, certe cose dobbiamo riuscire a farcele scivolare addosso.
      Tieni duro!

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    3. "Sono d'accordo, per questo mi trovo in fase di decisioni drastiche: persino chiedere un trasferimento interno mi sembrava troppo poco. Ho optato per un part-time. La vita dopo tutto non è una condanna da scontare. E il lavoro non deve essere un ergastolo."
      (Risposta dell'anonimo autore del post. A cui aggiungo il mio benvenuto su questo blog ^_^ )

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